Ho avuto una sola occasione di incontro ravvicinato con Papa Francesco: il 27 marzo 2014, al mattino molto presto, subito prima di una messa (credo l’unica di Bergoglio) coi parlamentari italiani.
Come uno scolaro in ritardo, stavo quasi correndo lungo le mura del lato sinistro della basilica di San Pietro, quando una guardia svizzera mi fermò, insieme ad un piccolo gruppo di altri passanti, tra i quali c’era anche qualche altro parlamentare ritardatario.
Compresi subito la ragione dello stop: stava arrivando il Papa, proveniente da Santa Marta, con un piccolo seguito di collaboratori, ovviamente diretto anche lui all’abside di San Pietro, per la celebrazione della messa all’altare della Cattedra. Qualcuno tra noi “fermati” accennò ad un applauso e ad un timido “viva il Papa”.
Tanto bastò perché Bergoglio si girasse e venisse verso di noi a stringere mani e a dispensare sorrisi e battute cordiali, mentre il fotografo dell’Osservatore Romano faceva diligentemente il suo lavoro.
Poco dopo, durante la Messa, Papa Francesco non solo non mostrò alcun trasporto nei riguardi dei 493 (secondo il pignolo conteggio della Radio Vaticana) parlamentari presenti, ma li gelò (ci gelò) con un’omelia che definire severa sarebbe riduttivo: “Gesù guarda il popolo e si commuove – disse tra l’altro il Papa – perché lo vede come ‘pecore senza pastori’, così dice il Vangelo. E va dai poveri, va dagli ammalati, va da tutti, dalle vedove, dai lebbrosi a guarirli. E parla loro con una parola tale che provoca ammirazione nel popolo: ‘Ma questo parla come uno che ha autorità!’, parla diversamente da questa classe dirigente che si era allontanata dal popolo. Ed era soltanto con l’interesse nelle sue cose: nel suo gruppo, nel suo partito, nelle sue lotte interne. E il popolo, là… Avevano abbandonato il gregge. E questa gente era peccatrice? Sì. Sì, tutti siamo peccatori, tutti. Tutti noi che siamo qui siamo peccatori. Ma questi erano più che peccatori: il cuore di questa gente, di questo gruppetto con il tempo si era indurito tanto, tanto che era impossibile ascoltare la voce del Signore. E da peccatori, sono scivolati, sono diventati corrotti. E’ tanto difficile che un corrotto riesca a tornare indietro. Il peccatore sì, perché il Signore è misericordioso e ci aspetta tutti. Ma il corrotto è fissato nelle sue cose, e questi erano corrotti. E per questo si giustificano, perché Gesù, con la sua semplicità, ma con la sua forza di Dio, dava loro fastidio. E, passo dopo passo, finiscono per convincersi che dovevano uccidere Gesù…”
Parole taglienti come la lama di un rasoio, che lasciano quella piccola folla di politici senza fiato. Il popolo tradito da coloro che dovrebbero servirlo. E che perciò meritano l’appellativo non di peccatori, ma di corrotti. Marci dentro.
Finita la messa, Papa Francesco evita qualunque contatto diretto: se ne va, quasi di corsa, deludendo tutte le aspettative di incontro personale e magari anche di photo opportunity. E infatti, nell’archivio fotografico dell’Osservatore Romano sono ritratti, mentre stringono la mano al Papa in rapida uscita dalla basilica, solo i due presidenti di Camera e Senato, Boldrini e Grasso, e il ministro Del Rio. Nessun altro. Tranne noi, ritardatari fermati, fortunati destinatari di un caloroso incontro ravvicinato, semplicemente perché il Papa non ci aveva inquadrato come parlamentari…
L’episodio è certamente minore. E tuttavia indicativo della principale preoccupazione espressa da Papa Francesco nei riguardi della politica in questo nostro tempo: la frattura tra potere e popolo, che rischia di minare la democrazia dall’interno, corrompendola fino a farla marcire in modo irreversibile.
Papa Bergoglio ha infatti confermato e riaffermato l’opzione preferenziale per la democrazia, sancita dal Concilio e da Paolo VI. Ma come i suoi predecessori, lo ha fatto non nascondendosi, ma anzi tematizzando le sfide storiche con le quali la democrazia deve confrontarsi.
Per Papa Wojtyla, l’ultimo del Novecento, il Papa che ha contribuito in misura forse determinante all’abbattimento della Cortina di ferro e del Muro di Berlino, la sfida era portare a compimento la globalizzazione della democrazia, anzitutto attraverso la liberazione, dell’Europa e del mondo, dai totalitarismi e dai feroci regimi nei quali si erano incarnati.
Per Papa Ratzinger, il primo del nuovo millennio, la questione fondamentale della democrazia contemporanea, sconfitti i totalitarismi del Novecento, è quella che attiene ai fondamenti dello Stato liberale di diritto, al rapporto tra principio di maggioranza e diritti umani inviolabili, in definitiva tra libertà e verità.
Papa Bergoglio, il primo Papa latinoamericano, quindi solo indirettamente europeo (e italiano), venuto dal Nuovo Mondo, dal Terzo Occidente, non poteva non fare i conti con la doppia sfida alla democrazia nella crisi della globalizzazione: da un lato la sfida del grande Sud globale, nelle sue diverse e distinte articolazioni, tutte variamente tentate di cercare il loro imprescindibile ruolo nel mondo, fuori, senza, o addirittura contro la democrazia; dall’altro lato, l’affanno delle democrazie nord-occidentali, assediate all’esterno dai nuovi protagonisti globali, ma anche minate all’interno dal declino demografico, dalle pressioni migratorie, dalle nuove disuguaglianze, dalle chiusure oligarchiche, dall’affermarsi impetuoso di nuove formazioni politiche di stampo populista e autoritario. I corrotti che si servono del popolo invece di servirlo.
Papa Francesco guarda preoccupato a questa gigantesca accumulazione di tensione, di energia negativa, che alimenta ormai da anni la famosa “guerra mondiale a pezzi” e che potrebbe deflagrare in modo incontrollabile, anche grazie al nuovo riempirsi degli arsenali bellici di quasi tutto il mondo. E chiede in modo accorato e instancabile di abbassare la febbre, allentare la tensione, rimettersi a costruire ponti e non muri, contrastare la “cultura dello scarto”, scarto di risorse naturali, di beni prodotti e financo di esseri umani, di popoli interi. E di riaffermare il primato della persona umana, coi suoi diritti inviolabili e gli inderogabili doveri di solidarietà, come via maestra per la pace, la giustizia, la democrazia.
Per dodici anni, il Papa venuto dalla fine del mondo ha remato controcorrente. La sua opera resta incompiuta, come quella di tutti i suoi predecessori, da Pietro fino a Ratzinger. Siamo “servi inutili” dice il Vangelo di Luca. Tutti. I Papi lo sono ancora di più, perché sono “servi dei servi”. Ora l’opera incompiuta di Francesco attende di essere proseguita: dal suo successore, ma anche e forse soprattutto da quel popolo che egli ha amato fino alla fine.
*Consigliere Regionale Trentino Alto Adige, già senatore PD