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Il lavoro umano nell’era dell’ IA

“O vivremo del lavoro o pugnando si morrà” recita il noto Inno dei lavoratori scritto dal leader socialista Filippo Turati nel 1886. Pochi anni dopo, nel 1889, a Parigi veniva istituita la Festa internazionale dei lavoratori: un giorno per mettere al centro il lavoro, come ci ricorda Stefano Gallo in un bel volume appena uscito intitolato proprio Primo maggio (Il Mulino, 2025). Riscatto e dignità del lavoro sono parole chiave che scandiscono le rivendicazioni delle classi lavoratrici otto-novecentesche, lavoratori e lavoratrici che presa coscienza del loro comune destino si uniscono e lottano collettivamente per modificarlo.

È così che il lavoro da questione prettamente individuale diviene qualcosa di diverso, assume una dimensione sociale e politica, come ricostruito da Stefano Gallo e Fabrizio Loreto nell’importante Storia del lavoro nell’Italia contemporanea (Il Mulino, 2023). La centralità assunta dal lavoro tra Otto e Novecento è coincisa con l’emersione di una classe sociale, definita classe lavoratrice, o classe operaia, che attraverso la “lotta di classe” ha contribuito a trasformare in meno di un secolo il lavoro da “un’occupazione quotidiana a cui l’uomo è condannato” – come ci ricordava Diderot nel 1765 nell’Encyplopédie – a uno strumento di accesso alla cittadinanza e al Welfare, dunque portatore di diritti (cfr. Gallo e Loreto, cit., pp. 10-11).

Al contempo, il lavoro umano è divenuto centrale anche per le classi dirigenti dell’età degli imperi. Da un lato, esse ne riconoscevano il potenziale sovversivo – da cui le prime forme di Stato sociale per rispondere all’emergere della preoccupante “questione sociale” e la creazione di strumenti statistici e categorie per misurare i senza lavoro, i disoccupati studiati da Manfredi Alberti (Senza lavoro. La disoccupazione in Italia dall’Unità a oggi, Laterza, 2016). Ma il lavoro delle classi subalterne era consustanziale allo sviluppo della società industriale: si rende quindi necessario disciplinare le classi popolari affinché contribuiscano al processo di industrializzazione. L’etica del lavoro, inteso come dovere, diviene il caposaldo della società industriale.

La centralità del lavoro ottiene un riconoscimento formale nella prima metà del Novecento: è l’Organizzazione internazionale del lavoro, nata nel 1919 sulle ceneri della Prima guerra mondiale, a sancirne nella sua Costituzione la rilevanza, e a porre a livello internazionale il problema del miglioramento delle condizioni dei lavoratori:

“Considerando che una pace universale e durevole può essere fondata soltanto sulla giustizia sociale; considerando che vi sono condizioni di lavoro che implicano per un gran numero di persone ingiustizia, miseria e privazioni, generando tale malcontento da mettere in pericolo la pace e l’armonia del mondo e che urge prendere provvedimenti per migliorare simili condizioni […]”.

La stessa Organizzazione il 10 maggio 1944 aprirà la Conferenza internazionale del lavoro di Filadelfia riaffermando come primo principio chiave che “il lavoro non è una merce”. Come è noto la Costituzione della Repubblica italiana, entrata in vigore il 1° gennaio 1948, ribadirà la centralità del lavoro e il suo nesso con la democrazia (art. 1) e garantirà tra i diritti fondamentali proprio quello al lavoro (art. 4).

Il lavoro, secondo la letteratura filosofica, sociologica e antropologica, è un’attività umana fondamentale, il luogo del legame sociale e della realizzazione di sé, fonte di identità collettiva e fattore di sociabilità. La sua centralità come categoria antropologica, ci ricorda la filosofa francese Dominique Méda (Società senza lavoro, Feltrinelli, 1997), è condivisa dalla tradizione marxista, cristiana e umanistica ed è stata alla base della creazione di quella società del lavoro che vede il suo culmine nel “trentennio glorioso” successivo alla Seconda guerra mondiale e che entrerà in crisi dagli anni Ottanta con la transizione dalla società industriale a quella post-industriale.

La centralità del lavoro come categoria antropologica, ci ricorda la filosofa francese Dominique Méda, è condivisa dalla tradizione marxista, cristiana e umanistica

Gli anni Novanta vedono teorizzazioni che individuano nella fine dei paradigmi interpretativi precedenti la loro ragion d’essere; tra questi, i più rilevanti per la riflessione sulla centralità del lavoro sono indubbiamente due: la “fine del lavoro” e la “fine della classe operaia”. Quando, trent’anni fa, l’economista statunitense Jeremy Rifkin pubblicò il bestseller La fine del lavoro. Il declino della forza lavoro globale e l’avvento dell’era post-mercato (trad.it. Mondadori 2002) non era l’unico ma forse uno dei più influenti cantori della fine del lavoro umano, conseguenza della terza rivoluzione industriale trainata dall’informatica e, più in generale, dalle Ict (Information and Communications Technology).

La riflessione di Rifkin sugli effetti delle innovazioni tecnologiche sull’occupazione e sull’economia mondiale e il suo sguardo critico verso i processi di trasformazione (e distruzione) del lavoro in atto trent’anni fa sono utili oggi per pensare alla fase attuale, dove è la quarta rivoluzione industriale, trainata dall’Intelligenza artificiale e dalla robotizzazione, la sfida ultima al lavoro umano.

Altri sociologi, come i tedeschi Ulrick Beck, Claus Offe, Jürgen Habermas e Ralph Dahrendorf, contribuirono a delineare i contorni tra anni Ottanta e Novanta della crisi della società del lavoro, evidenziando l’emergere di una società del rischio, di una società post-moderna o post-industriale nella quale il lavoro aveva perso centralità come perno dell’organizzazione sociale ma anche della vita individuale. Il lavoro dagli anni Novanta diviene (o meglio torna) a essere sempre più frammentato e precario e sempre meno fonte di identità. Queste teorizzazioni, nella loro diversità e complessità, colgono la crisi non solo del lavoro ma anche della cittadinanza sociale, che proprio sul lavoro è stata costruita nel secolo precedente.

Se gli anni Ottanta sono stati interpretati come gli anni dell’attacco, della crisi o del riflusso del movimento operaio, bisogna chiedersi che fine fa la classe operaia, o meglio la classe lavoratrice organizzata, che alla crescita di quel movimento tra anni Sessanta e Settanta aveva contribuito in modo decisivo.

Indubbiamente, i processi di crisi e ristrutturazione del sistema capitalistico tra fine anni Settanta e anni Ottanta hanno fortemente ridimensionato la classe lavoratrice industriale, originando riflessioni importanti sulla scomparsa dell’età industriale e sulla deindustrializzazione come processo totale, messe a fuoco nel contesto italiano da Gilda Zazzara e Roberta Garuccio.

Come ci ricorda Luciano Gallino nell’illuminante libro-intervista curato da Paolo Borgna, La lotta di classe dopo la lotta di classe (Laterza, 2012), una classe sociale “esiste indipendentemente dalle formazioni politiche che ne riconoscono o meno l’esistenza e perfino da ciò che i suoi stessi componenti pensano di essa”. Ciò che è indubbiamente cambiato è la composizione di quella che possiamo definire ancora oggi classe lavoratrice, ma anche la centralità che essa riveste nei programmi dei partiti politici e nell’immaginario collettivo.

Gallino evidenzia efficacemente come dagli anni Ottanta la lotta di classe si sia ribaltata, come le classi dominanti, concepibili come una classe capitalistica transnazionale, abbiano contrastato lo sviluppo della classe lavoratrice (e della classe media) per recuperare privilegi, profitti e potere erosi in precedenza.

Il lavoro e chi quotidianamente lo svolge – una classe mai stata così ampia a livello globale e sempre meno bianca e connotata al maschile – è stato ridotto nuovamente a merce da usare solo quando serve?

In questa lotta impari, il lavoro e chi quotidianamente lo svolge, una classe di lavoratori mai stata così ampia a livello globale e sempre meno bianca e connotata al maschile, secondo molti osservatori critici è stato ridotto nuovamente a merce, una merce da usare solo quando serve. E quindi che deve essere flessibile, adattabile alle esigenze del mercato e della produzione. È il lavoratore o la lavoratrice che deve rendersi occupabile nel sistema flessibile del quale, tra gli altri, Ilaria Possenti ci svela i falsi miti nell’acuto volume Flessibilità. Retoriche e politiche di una condizione contemporanea (Ombre Corte, 2013).

È Colin Crouch a spiegare il problema che genera lo scorporamento del lavoro dalla persona che lo svolge:

«Se secondo la teoria economica classica il lavoro è una merce, la “merce lavoro” ha bisogno di riprodurre e sostenere sé stessa e di consumare. Ha bisogno di risorse anche nei periodi in cui non è richiesta. Se cessa di consumare, provoca recessioni. Quando si arrabbia, scoppiano i disordini. Più gli imprenditori insistono sul lavoro flessibile, più renderanno difficile ai lavoratori raggiungere la stabilità che è richiesta fuori dal lavoro» (C.Crouch, Se il lavoro si fa Gig, trad.it. Il Mulino, 2019).

Crouch affronta criticamente le teorie, come si è visto non nuove, che prevedono una drastica riduzione dell’offerta di lavoro per gli esseri umani nell’economia digitale del futuro, a causa dello sviluppo dell’automazione e dell’Intelligenza artificiale. Tra le criticità che lui intravede annoveriamo innanzitutto le forme di resistenza e conflitto, i momenti di transizione con eccedenza di manodopera, lo squilibrio di potere nei rapporti tra capitale e lavoro.

Oltre al rischio di obsolescenza del lavoro umano, nell’era dell’Intelligenza artificiale quali sono i rischi per la condizione lavorativa?

Come sottolinea il rapporto dell’Organizzazione internazionale del lavoro Rivoluzionare la salute e la sicurezza. L’Intelligenza artificiale e la digitalizzazione nel mondo del lavoro, l’Intelligenza artificiale, la digitalizzazione, la robotica e l’automazione possono contribuire al miglioramento della salute e del benessere, riducendo i rischi e migliorando l’efficienza nel campo medico, ad esempio, oppure sostituendo i lavoratori nelle lavorazioni pericolose, degradanti e ripetitive.

Lo stesso rapporto, tuttavia, sottolinea i rischi di un utilizzo estensivo e acritico di queste tecnologie: un eccessivo affidamento all’Intelligenza artificiale e all’automazione può ridurre la supervisione umana con maggiori rischi proprio per salute e sicurezza del lavoro, eccessivi carichi di lavoro se definiti esclusivamente da algoritmi, una crescita dello stress, del burn out e dei problemi di salute mentale a causa della connessione continua.

L’avvertenza che ci consegna l’Organizzazione internazionale del lavoro è la necessità di coinvolgere lavoratori, lavoratrici e i loro rappresentanti in ogni fase dell’adozione delle tecnologie suddette. Crouch, sottolineando a sua volta il rischio che la digitalizzazione accresca il disagio della vita lavorativa ampliando il potere di controllo dei datori di lavoro sui lavoratori, conferma l’importanza delle organizzazioni sindacali: “Se i sindacati non esistessero, bisognerebbe inventarli per salvaguardare i lavoratori dell’economia digitalizzata” (p. 162), precisando tuttavia la necessità “di un sindacalismo rivitalizzato, ma diverso da quello cui siamo abituati”.

Affinché il lavoro umano rimanga centrale e non diventi né obsoleto né superfluo, bisogna svelare innanzitutto un meccanismo fondamentale, già al centro della discussione delle organizzazioni sindacali italiane degli anni Settanta, che le tecnologie non sono neutre e oggettive ma sono frutto delle scelte di chi le progetta e le finanzia, influenzate dalle teorie dominanti che puntano generalmente alla massimizzazione del profitto e alla saturazione del tempo di lavoro dell’essere umano.

Già Claudio Sabattini, segretario della Fiom di Bologna negli anni Settanta e segretario generale della Fiom negli anni Novanta, rifletteva sul problema della progettazione, che doveva essere cambiata affinché non fosse più un’arma contro gli operai. Oggi essi sono sempre più “digitalizzati” come ci insegna una recente ricerca sulla trasformazione della metalmeccanica bolognese (cfr. F. Garibaldo e M. Rinaldini, Il lavoro operaio digitalizzato. Inchiesta nell’industria metalmeccanica bolognese, Il Mulino, 2022).

Come ci ricorda Moritz Altenried nell’interessante volume The Digital Factory: The Human Labor of Automation (The University of Chicago Press, 2022): “Today’s world is still a world of Labor”. E come precisa la storica del lavoro di origine turca Görkem Akgöz nella riflessione critica sulla diffusione del taylorismo digitale studiata da Altenried, l’impatto delle tecnologie digitali sul lavoro non è predeterminato. L’impatto finale dipende dalla natura della tecnologia, dalle caratteristiche dell’organizzazione del lavoro, dai meccanismi di controllo storicamente determinati, dalle decisioni manageriali, e dalla resistenza dei lavoratori .

Se vogliamo che il lavoro umano rimanga al centro come attività fondamentale, la transizione tecnologica in corso deve essere governata con un ruolo attivo delle istituzioni e delle organizzazioni sindacali, affinché il lavoro sia qualcosa di più che una merce da sostituire con un’altra meno costosa.

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