- E’ evidente che la disoccupazione, la perdita del lavoro può portare a situazioni di disagio sociale. Tuttavia, in Italia spesso si fa confusione tra politiche sociali e politiche del lavoro. Esistono dei criteri europei in grado di distinguere i due ambiti di intervento e che dovrebbero essere seguiti dal legislatore ?
Non esistono dei criteri europei univoci. Parlerei piuttosto di criteri riguardanti la natura degli interventi ma soprattutto il tipo di beneficiari a seconda che si tratti di politiche riguardanti il lavoratore o più in generale, i cittadini. In Italia, questa distinzione rimanda alla storica divisione tra previdenza e assistenza, ovvero, si potrebbe dire, tra la protezione sociale dei lavoratori e la protezione sociale dei cittadini. L’articolo 38 della Costituzione distingue nettamente tra questi due ambiti, sancendo in qualche modo il primato della protezione dei lavoratori, sulle politiche sociali rivolte ai cittadini, le quali, si stabilisce, devono riguardare il cittadino indigente. Questa distinzione tra assistenza e previdenza ha molto influenzato il corso del welfare italiano, tradizionalmente incardinato nel solco degli assetti assicurativi, o corporativi-occupazionali, per usare alcune delle espressioni più usate in letteratura. Non così è stato ed è tutt’oggi per altri paesi europei, in particolare all’interno di quei contesti che hanno seguito il sentiero beveridgiano dei welfare universalisti di cittadinanza. Anche l’Italia ha tentato riforme che hanno ampliato l’area dell’universalismo, seppure temperato da crescenti vincoli di selettività in base al reddito. Pensiamo alla riforma sanitaria del 1978, e più di recente alla legge quadro 328/2000.
Questi cambiamenti hanno tra l’altro contribuito a modificare i termini dei rapporti tra politiche del lavoro e politiche sociali. Così come nell’ambito del “lavoro” le riforme degli anni Novanta e Duemila hanno puntato a introdurre dispositivi e politiche di attivazione, con tutto quello che ne consegue anche in termini di attivazione degli stessi attori istituzionali (regioni, enti locali, centri per l’impiego, attori pubblici, privati, di terzo settore), anche le politiche sociali sono diventate terreno d’attivazione per utenti e servizi. In linea generale, si può assumere l’idea di un rapporto osmotico e complementare tra le politiche attive del lavoro, tese a combinare sostegno del reddito per i lavoratori (o i soggetti in cerca di lavoro), programmi di inserimento attivo, formazione, e le politiche sociali, tese a intervenire sul versante dell’assistenza, dei servizi di cura e conciliazione, così come sul contrasto della povertà. Su questo specifico punto, quello del contrasto alla povertà, va detto che per politiche sociali si intende un insieme di strumenti, in trasferimenti e in servizi ad hoc, finalizzati a prendere in carico coloro che non riescono ad accedere ai dispositivi ordinari di tutela dei reddito (prima della riforma Fornero la Cassa integrazione, oggi Aspi e mini-aspi). Naturalmente questo rapporto richiede una interazione sinergica e integrata tra i vari livelli istituzionali implicati. In Italia, è questo uno dei problemi principali con cui si dibattono le riforme del lavoro e delle politiche sociali. Manca una chiara governance nazionale, un’ idea strategica di integrazione tra “sociale” e “lavoro” in grado di fare dialogare meglio questi due ambiti, il primo – quello del lavoro – fermo al discorso sulle “regole”, il secondo sostanzialmente dismesso per mancanza di risorse, dopo l’approvazione della legge quadro sull’assistenza. Di fatto, la legge del 2000 è rimasta una incompiuta, stretta tra la mancanza di finanziamenti adeguati – il Fondo nazionale politiche sociali dopo l’azzeramento del 2011 è stato di recente portato a 300 milioni di euro circa – e una sovrapposizione di competenze tra i livelli istituzionali deputati a integrare politiche sociali e politiche del lavoro. Tra i risultati negativi di questa situazione c’è oggi il fatto che l’Italia, insieme alla sola Grecia e Ungheria, è uno dei pochi paesi europei a non avere una politica nazionale di contrasto alla povertà.
- Uno degli ambiti di maggiore confusione è quello relativo al tema del reddito minimo. Si parla di reddito minimo in Italia intendendo tre cose del tutto diverse tra loro : la necessità di definire un minimo salariale ad di sotto del quale sia impossibile scendere, il reddito erogato a chi perde lavoro in cambio della partecipazione ad una misura di reinserimento ed il reddito di cittadinanza per le situazioni di povertà. Può aiutarci a fare ordine in questo quadro ?
In effetti questo è un ambito di grande confusione in Italia, ma non solo in questo momento. Da diversi anni si parla di Reddito minimo, Reddito di cittadinanza, salario minimo garantito. Per fare chiarezza diciamo che un conto è la proposta di minimi salariali per chi non è coperto dalla contrattazione, ma un lavoro ce l’ha. Altro contro è il Reddito minimo di inserimento. Altro ancora è il Reddito di cittadinanza, un reddito conferito a tutti i cittadini, senza vincoli o restrizioni, dunque teoricamente anche per i ricchi. Credo che molti quando oggi parlano di Reddito di cittadinanza in realtà intendano il Reddito minimo di inserimento. Non si spiegherebbe altrimenti l’accento che si pone sul problema delle condizionalità. In linea teorica, infatti, il Reddito di cittadinanza non presenta condizionalità o sanzioni in caso di rifiuto di un lavoro proposto. Diverso è il caso del Reddito minimo di inserimento che, tra l’altro, l’Italia ha già avuto, seppure in una breve sperimentazione poi conclusasi con un nulla di fatto. Nonostante gli esiti positivi della sperimentazione (riscontrati dalla Commissione appositamente costituita) il secondo governo Berlusconi nel 2001 decise di non procedere all’ estensione della misura su scala nazionale, preferendo il cosiddetto reddito di ultima istanza, di molto inferiore negli importi e comunque nel giro di poco tempo messo da parte. Da allora, sono trascorsi anni senza particolari interventi, fino all’ introduzione della Social card, nei fatti un dispositivo solo economico, tra l’altro di bassissima entità, e senza alcun collegamento con servizi e partenariati di inserimento occupazionale. Al di là del fatto che l’accesso al reddito sia più o meno condizionato a programmi di inserimento attivo nel mercato del lavoro, nel Reddito minimo di inserimento l’elemento preponderante sta nel tipo di relazione che si viene a configurare tra sostegno del reddito e partenariati sociali finalizzati a produrre inclusione lavorativa e sociale. Non a caso, nella revisione recente della Social card (ad opera del governo Monti) le innovazioni maggiori, insieme a una più alta dotazione di fondi, hanno riguardato il recupero di questa esperienza di partenariati con i soggetti associativi, tornando in parte verso il modello originario di Reddito minimo di inserimento.
- Sia i “saggi“ nominati dal Presidente Napolitano, che il Movimento 5 Stelle parlano di reddito minimo tra le loro proposte; anche altri partiti come il PD e Sel preannunciano questa misura. Cosa intendono proporre? Quali di queste misure?
Non mi sento di entrare nei programmi dei singoli partiti. Di Sel, sappiamo che si è fatta promotrice di una legge di iniziativa popolare sostenuta da varie realtà associative, tra cui il Basic Income Network, e sindacali per l’istituzione del Reddito di cittadinanza, un reddito non condizionato (o quanto meno poco condizionato), pari a circa 600 euro mensili, più tutta una serie di facilitazioni per spese mediche, abitazione, etc… Non ho ben chiara la proposta del Partito democratico. E’ stata proposta l’introduzione del Reddito minimo di inserimento. D’altra parte la sua sperimentazione nei primi anni del 2000 si deve ai governi di centro-sinistra. E’ verosimile pensare quindi che la proposta politica punti in questo momento a recuperare quella esperienza.
- Le misure di reddito minimo sperimentate in Italia, per esempio dalle regioni Lazio e Campania, hanno destato alcune critiche. Misure di mero sostegno al reddito, con procedure di erogazione complesse, costose e prive di qualsiasi partecipazione ad interventi di inserimento. Qual è la sua opinione rispetto alle sperimentazioni che sono state fatte ?
Il Reddito minimo di inserimento è tornato fortemente d’attualità per la grave crisi che stiamo attraversando e la strutturale mancanza di lavoro. Della sperimentazione di questo dispositivo nei primi anni del 2000 ho già detto. Quella sperimentazione – che aveva prodotto risultati positivi, soprattutto nei confronti degli strati sociali più ai margini – non è stata trasformata in una effettiva riforma, insieme magari con una pari riforma complessiva degli ammortizzatori sociali. Siamo ancora in una situazione fortemente frammentata, tra gruppi core e gruppi periferici, tra insider e out-sider, si potrebbe dire. A questo problema le politiche nazionali non hanno saputo rispondere. Vi sono state esperienze regionali, molto diverse tra loro, che hanno tentato di offrire risposte. Queste soluzioni mancano, tuttavia, di sistematicità, di una visione complessiva in grado di ricongiungere il livello territoriale con quello nazionale. Per quanto riguarda le due esperienze citate, direi che ci sono differenze sostanziali, non fosse altro per il fatto che nel Lazio la misura, una volta introdotta (nel 2009) è stata subito cancellata dalla giunta insediatasi nel 2010, mentre in Campania ha avuto effettiva applicazione, almeno per un limitato periodo di tempo (dal 2004, anno della sua istituzione, fino alla soppressione, appena insediata la giunta Caldoro). Detto questo, mi sento anche di dire che si è trattato di modelli di Reddito contraddistinti da forti criticità, soprattutto in Campania dove prima si è prevista una misura fortemente universalista (senza barriere all’accesso o particolari condizionalità) e solo in seguito ci si è resi conto che a questa aspirazione non corrispondeva una conseguente dotazione di fondi. Il risultato è stato che la platea dei potenziali beneficiari è risultata largamente superiore alle affettive disponibilità economiche. Dal 2006, anno in cui è terminata la sperimentazione, la misura è andata avanti per proroghe annuali, progressivamente calanti in termini di risorse, fino alla sua cancellazione.
Queste sperimentazioni denotano deficit amministrativi imputabili alle regioni. Ci si lancia in programmi di riforma che sul piano nazionale non si riesce ad ottenere, senza una adeguata cognizione degli oneri finanziari che si dovranno sostenere. Tutto questo indebolisce molto le effettive possibilità di introdurre misure innovative di contrasto alla povertà, con il rischio di pesanti ritorni all’indietro, come è stato nel Lazio. Qui, alla repentina cancellazione del Reddito di cittadinanza ha seguito una strategia nuova tutta centrata sul solo trasferimento di risorse alle realtà associative che a vario titolo si occupano di povertà. Insomma un bel salto verso il passato.
- Esiste un modello europeo di riferimento che abbia dato buoni risultati ?
Esistono diversi modelli di Reddito minimo. Quello di più lontana tradizione è certamente quello francese del Revenue Minimun Insertion, oggi Revenue Solidarité Active (RSA). Già dagli anni Ottanta, in Francia sono stati previsti strumenti di sostegno del reddito per i soggetti non coperti dai dispositivi ordinari, di tipo assicurativo. Questo è tra l’altro interessante nel confronto con l’Italia, per il fatto di avere in comune una matrice dominante assicurativa a cui, tuttavia, la Francia ha saputo affiancare strumenti dedicati (finanziati dalla fiscalità generale) per il contrasto della povertà. Altra caratteristica interessante di questo paese è l’avere fatto interagire queste politiche dei cosiddetti minima sociaux con politiche per la creazione di nuova occupazione nei servizi alle persone. Certo questo tipo di integrazione ha determinato anche alcune criticità; su tutte, il fatto di non avere contribuito a qualificare l’offerta di lavoro nella cura delle persone. Ma questo è un tratto comune anche a paesi che non hanno perseguito questa integrazione. Per esempio, l’Italia, dove addirittura il grosso della occupazione nella cura è sommersa, al nero. Detto questo e nonostante queste criticità, la Francia evidenzia tassi di povertà molto al di sotto di quelli fatti registrare dall’Italia.
- L’insistenza sul tema del reddito per il disoccupato forse appare anche come l’ammissione della sconfitta definitiva delle politiche attive per l’inserimento. Ti do il pesce perché mi dichiaro incapace di darti la canna da pesca. Che senso hanno misure di reddito di inserimento prive di un collegamento obbligatorio ad interventi per il reimpiego ?
In effetti hanno poco senso. Ma il punto non è tanto questo. Il problema semmai è il tipo di condizionamento al reimpiego, ovvero gli spazi di autonomia e possibilità di scelta concessi all’utente. Non è detto che l’obbligatorietà all’accettazione dell’impiego proposto porti a inserimenti stabili di per sé. Ad esempio, molti studi nel Regno Unito hanno mostrato come la forte enfasi sul reinserimento repentino nel mercato del lavoro, anche al costo di una occupazione non in linea con le proprie skills o back-ground professionale, spesso produca nuova dipendenza dall’assistenza. Per il tipo di formazione erogata (di breve periodo) e le forti condizionalità all’accettazione di qualunque proposta di lavoro, c’è una alta probabilità di ricadere in condizione di dipendenza dall’assistenza passiva. Diversa è l’esperienza dei paesi scandinavi. Qui non solo i sussidi sono stati per lungo tempo più generosi e più lunghi, ma anche la formazione erogata di più lungo periodo, finalizzata a produrre non una occupazione purché sia, ma inserimenti più stabili. Non solo, accanto a questo genere di politiche (dell’offerta) questi paesi non hanno mai abbandonato le politiche industriali, ovvero l’intervento sulla struttura produttiva, volto a qualificare verso l’alto la domanda di lavoro e conseguentemente l’offerta di lavoro. Non ridurrei quindi tutto al problema delle condizionalità. Questo, in fondo, è un principio di minore entità rispetto al problema di come si crea lavoro, occupazione, non solo l’adeguamento e l’adattabilità dell’offerta di lavoro alle richieste del mercato.
- L’attuazione della nuova Aspi, magari con l’estensione ai collaboratori a progetto, non è già di per se una misura di reddito di inserimento ? In cosa consiste la novità che dovrebbe arrivare da un nuovo governo, per esempio contenuta nelle proposte del PD ?
Non credo possa essere considerata una misura di reddito di inserimento. Aspi e mini aspi sono dispositivi tesi a sostituire gli strumenti di sostegno del reddito per i lavoratori. Mentre quando parliamo di reddito di inserimento o reddito minimo parliamo di politiche di contrasto alla povertà, dunque siamo in un altro ambito.
Non so quale sarà la novità che potrebbe arrivare da un nuovo governo. Credo che una revisione della recente riforma del lavoro dovrebbe puntare alla istituzione di una indennità di disoccupazione unica, a cui affiancare politiche ad hoc per il contrasto della povertà sul modello del Reddito minimo di inserimento che, come ho già detto, era stato introdotto anche in Italia, salvo poi essere tolto di mezzo nel giro di poco tempo. E il fatto che la sua sperimentazione avesse prodotto risultati positivi dovrebbe fare riflettere.
Ritengo però che anche così facendo non avremmo risolto tutti i problemi. La vera emergenza è il riassorbimento della disoccupazione e la creazione di nuovo lavoro. A questo obiettivo possono concorrere diverse politiche, dagli sgravi fiscali alle imprese, al rilancio degli investimenti produttivi, la ricerca, l’innovazione. Tutte cose giuste. Così come giusto sarebbe dotare finalmente il nostro paese di una seria politica nazionale contro la povertà. Ma a questo dovremmo affiancare un piano di rilancio dell’occupazione, magari laddove una domanda di lavoro in crescita già c’è, come tutto il versante dei servizi di cura. Certo si tratta spesso di occupazioni mal retribuite, quando non al nero. Ma questo dipende anche dalla mancata qualificazione di questo settore, da politiche sociali orientate in larga misura, non a contrastare questi circuiti del sommerso, ma ad alimentarli. Per fare questo c’è bisogno senz’altro di nuove risorse economiche e in questa fase molti potrebbero obiettare che si tratta di obiettivi irrealizzabili. In effetti, se si continua a guardare al welfare come un costo solamente o come spesa improduttiva non ci sono grandi alternative. Ma il welfare non è solo un costo. Il welfare, soprattutto quello dei servizi, può essere volano di crescita dell’occupazione, diretta e indiretta. Stime, oramai comunemente accettate, stabiliscono che per ogni donna che lavora sono dieci i posti di lavoro che si possono creare. D’altra parte, i servizi sociali non rispondono solo a bisogni di conciliazione tra vita e lavoro. Pensiamo alle trasformazioni demografiche e all’impatto che l’invecchiamento della popolazione sta avendo sull’emergere di nuovi bisogni sociali, così come di nuove professionalità legate alla cura delle persone.
- Qual è la proposta che auspica possa essere attuata in Italia ?
Non ho una proposta specifica ma vorrei che la politica del lavoro si occupasse anche di queste cose appena dette, ovvero che il discorso sul welfare non fosse schiacciato solo sui tagli lineari o sulla tenuta della coesione sociale, bensì sul contributo che la spesa sociale può dare anche alla crescita dell’occupazione.
(*) Andrea Ciarini, ricercatore in sociologia economica. Docente di sistemi di welfare in Europa, Dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche, Sapienza Università di Roma