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Dopo i referemdum, per favore fate l’ unità sindacale*

Di questi giorni, 40 anni fa, un altro referendum riguardante il lavoro – quello sul taglio della scala mobile – registrò la sconfitta di chi l’aveva voluto, il PCI e in primis di Enrico Berlinguer. La storia si è ripetuta. Questa volta è stata la CGIL e in primis Maurizio Landini a lanciare il guanto della sfida e tutti sanno com’è finita. Allora le vittime furono due, il partito comunista che iniziò una parabola discendente e l’unità sindacale che tuttora è sparita dal lessico sindacale. Oggi, non ancora è chiaro chi ne farà le spese. 

La contabilità referendaria analizzata dall’Istituto Cattaneo è chiara “I piccoli incrementi rispetto al proprio bacino elettorale storico registrati sulla posizione referendaria da loro sostenuta riguardo al lavoro da Pd, Avs e M5S sono contraddetti dalle grandi perdite subite sulla cittadinanza. In ogni caso, né gli uni né le altre derivano da flussi di voto che sembrano destinati a replicarsi. L’impressione che si ricava su questo piano dai dati da noi esaminati continua ad essere quella di una sostanziale stabilità degli allineamenti elettorali registrati in occasione delle politiche 2022 e delle europee 2024.”

La contabilità politica fa tirare un respiro di sollievo a tutti i partiti in campo, specie a quelli che avevano sollecitato un comportamento passivo dei cittadini; ma tutto sommato, anche ai partiti che si sono spesi per una partecipazione al voto e alla scelta tra il SI e il NO. In questi ed in particolare nel PD, ci si è arrampicati sui vetri per trovare ragioni di compiacimento. Ma ciò che più interessa riguarda la dialettica che si aprirà, dato che chi sostiene che c’è stata una esposizione movimentistica al di sopra delle righe, dovrà fare di tutto perché il “campo” si allarghi significativamente verso il resto delle forze di opposizione. In ogni caso, tutto il PD dovrà porsi il problema della gran massa dei non votanti, perché in essa ci sono tante persone da recuperare.  Comunque, nel complesso, ci sono molte ed importanti questioni che affollano l’agenda politico-parlamentare da fare da anestetico alle polemiche post referendarie.

La contabilità sindacale è più complessa. Ma qualche considerazione si può fare. Di certo, con questo risultato si chiude una lunga fase di forte esposizione del sindacalismo italiano sul terreno della produzione legislativa. Ad esclusione della UIL, che non si è avventurata nel territorio proprio dei partiti, CGIL e CISL si sono impegnate a sostenere per molti mesi le loro proposte (la prima referendaria, la seconda di legge di iniziativa popolare sulla partecipazione economica), dimostrando una notevole capacità di mobilitazione dei propri iscritti e accentuando la natura identitaria delle iniziative.

C’è da ritenere che, viste le conclusioni a cui si è giunti sui due fronti, il capitolo della incursione legislativa – soprattutto in solitaria, sindacalmente parlando – si è esaurito. In maniera, a dir poco deludente, per la CGIL, nonostante che il suo leader la consideri soltanto una tappa di “una sfida che continua”, come se non fosse stato prevedibile sin dall’inizio che non si trattava di una passeggiata ma di   buttare il cuore oltre l’ostacolo. Se fosse la riproposizione dello stesso atteggiamento che ha portato alla sconfitta, ricordo a Landini che Lama, subito dopo il referendum del 1985, tese la mano a CISL e UIL per una ripresa di collaborazione, che avvenne con prudenza, per la saggia condivisione di Marini e Benvenuto. 

E’ andata in maniera più soddisfacente per la CISL, dato che una legge per la partecipazione economica ora c’è. Essa è considerata anche da Daniela Fumarola, Segretaria Generale di questa organizzazione una “soft low”, evidentemente nella consapevolezza che pezzi significativi della proposta iniziale erano rimasti fuori da Montecitorio prima e da Palazzo Madama, poi. Ma anche su questo fronte, l’attuazione nelle aziende di quella legge non potrà essere che il risultato di una gestione unitaria, pena la sua messa su un binario morto.

Le questioni del lavoro si dimostrano, ancora una volta, che non sono materie che la legge può definire in modo decente, senza una benchè minima compartecipazione di tutte le parti sociali più importanti. Se divengono terreno di sfida o di identità fra quest’ultime, si sa da che cosa si parte, ma non dove si arriva. E spesso, si va verso un dove che non vorrebbe chi ne è promotore.

Si apre, dunque, una fase di incerta previsione circa il ruolo confederale. Mentre le strutture categoriali stanno assolvendo al proprio mandato di soggetto contrattuale, cercando di ottenere anche buoni risultati salariali e normativi in maniera unitaria, salvo qualche eccezione, le Confederazioni devono rendere chiaro su quali strade vogliono collocarsi. Sono fondamentalmente due. 

Giocare di rimessa rispetto alle grandi questioni della transizione postindustriale, attendendo che altri soggetti si prendano l’onere di dire da che parte andare. Oppure, come in altri momenti della storia sindacale italiana è avvenuto, proporre un disegno di medio e lungo periodo di cambiamento eco-tecnologico, pur mantenendo una centralità manifatturiera nel sistema produttivo e occupazionale italiano. Ciò è possibile, implementando le indicazioni di Draghi e Letta con obiettivi e misure di ordine sociale. E così rendere stringente e coerente il confronto con le istituzioni e le controparti.

Questa seconda ipotesi ha più possibilità di successo se è costruita unitariamente, con un forte coinvolgimento della base sindacale e una collaborazione ben orchestrata con il mondo della ricerca e dell’università. Dare una prospettiva strategica all’iniziativa categoriale è condizione essenziale anche per meglio favorire sbocchi contrattuali positivi a quei settori che sono ancora in lotta per acquisirli. Invece, la prima ipotesi si può gestire anche non unitariamente. Essa è già stata largamente sperimentata in questi ultimi anni e si conoscono tanto i percorsi, quanto i risultati che si sono ottenuti, quali tassi di soddisfazione sono stati espressi dalle singole organizzazioni, ma soprattutto dai lavoratori se e quando sono stati coinvolti.

In definitiva, l’auspicio è che nessuno resti inchiodato a quanto è successo. Nessuno faccia finta di niente. Tutti si orientino a cercare prospettive nuove, che passino per un rilancio non minimalista del confronto.   Diceva Delors, padre del dialogo sociale europeo, guardando alla sua crisi nel secondo decennio di questo secolo, che esso “era come una messa eseguita senza fede”. Anche guardando all’Italia, bisogna dare un’anima forte alla pratica del confronto, anche per un altro motivo. C’è l’urgenza di rimontare il dilagare dell’individualismo e della indifferenza. Questi sono cresciuti in contemporanea con l’arretramento culturale e operativo dei corpi intermedi nei confronti di settori più aggressivi e divisivi. Dalla società civile, tuttora ricca di esperienze e aggregazioni, c’è stato un ripiegamento sul “fare” anche bene e in modo utile, ma senza sbocco strategico. La politica senza visione se ne è avvantaggiata, ma con risultati disgreganti.  Un’inversione della tendenza deve vedere un ruolo propositivo del sindacalismo confederale e non solamente movimentistico, essendo tra i vari corpi intermedi l’espressione più rilevante. E’ augurabile che ciò avvenga e si imponga all’attenzione di tutta la società.

*testo già apparso su Il diario del lavoro, giugno 2025

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