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Usa-Ue, i dazi come una super tassa

C’è poco da festeggiare per l’accordo raggiunto tra Donald Trump e Ursula von der Leyen. Per l’Europa le conseguenze saranno molto serie e non di breve durata

C’è poco da festeggiare per l’accordo raggiunto ieri (domenica 27 luglio) in Scozia tra Unione europea e Stati Uniti. I dazi sono sì inferiori a quel 30% che Trump minacciava di introdurre, ma il colpo all’economia europea si farà sentire. Si dice: “Almeno l’intesa c’è”. Vero, ma nessuno può garantire che questo sia l’ultimo atto della guerra commerciale avviata con il Liberation Day.

I giapponesi, ad esempio, stanno ancora discutendo le diverse interpretazioni dell’accordo raggiunto qualche giorno fa, mentre con il Canada lo scontro è ormai intermittente. Anche con la Ue mancano i dettagli, specie sulle promesse di acquisti fatte a Trump, ed è assai probabile che non mancheranno le sorprese.

La sostanza comunque è che i 530 miliardi di merci europee (65 italiane) esportate ogni anno negli Stati Uniti avranno una supertassa senza precedenti del 15%. Un macigno per il nostro export, inutile minimizzare. Alla prova dei fatti si capirà meglio chi farà le spese di questa nuova tassa, innanzitutto negli Stati Uniti.

Di certo a pagare saranno i consumatori, con un aumento dei prezzi che andrà oltre il piccolo rimbalzo già registrato dall’inflazione. Trump potrà contare su varie decine di miliardi di entrate aggiuntive, ma potrebbe subire le conseguenze di un aumento dei prezzi: perdita di consensi e mancato ribasso dei tassi di interesse.

Per quante minacce e battibecchi in diretta tv il presidente possa escogitare, non è facile infatti piegare un uomo della stoffa di Jay Powell, presidente della Fed. E con i tassi di interesse invariati, secondo il Congresso, il costo del debito per il Tesoro americano sarà quest’anno di 950 miliardi.

Per quanto riguarda l’Europa c’è poco da rinviare alla prova dei fatti: il 15% è un muro difficile da scalare e l’unico relativo ribasso riguarda il settore auto, come chiedeva soprattutto la Germania. Le conseguenze saranno molto serie e non di breve durata. Trump ha infatti accelerato, gravandola di arbitraria radicalità, una tendenza strisciante da almeno un decennio, da quando fallì il tentativo del Ttip, l’accordo di libero scambio Usa-Ue.

Noi europei rischiamo per di più di trovarci tra due fuochi, con ostacoli crescenti nelle esportazioni verso gli Stati Uniti e con una marea montante di importazioni cinesi. È chiaro che al tempo di Trump, Cina e Ue hanno un interesse comune a tenere aperte le rotte del commercio mondiale, ma gli europei devono anche trovare mezzi più efficaci per difendersi dalla sovraproduzione assistita “made in China”. Si tratta di un’equazione complessa che il recente vertice eurocinese di Pechino non ha affatto risolto.

Una prima lezione da ricavare dall’esito della guerra dei dazi riguarda l’importanza del nostro mercato interno. La tendenza a un rallentamento della globalizzazione può essere contrastata, ma non è reversibile nel breve periodo. Conviene prenderne atto.

Per l’Italia questo vuol dire che, al di là del sostegno ai settori più penalizzati dai dazi, questa congiuntura può essere una buona occasione per ridare centralità al nostro mercato interno, con adeguate politiche industriali e puntando a incrementare la produttività e il potere d’acquisto delle famiglie.

La scorsa settimana l’Ocse ci ha ricordato che l’Italia detiene il primato degli stipendi e dei salari più bassi tra le economie avanzate. Di questo record negativo si discute troppo poco, e forse è il tempo giusto per mettere la questione in cima all’agenda di governo e opposizione.

La seconda lezione riguarda il ruolo dell’Unione europea. L’accordo di ieri ne ha messo in evidenza i limiti, perché Trump ha condotto la partita giocando da superpotenza, mentre l’Ue, oltre a fare molte concessioni, ad esempio sull’accordo sulla tassa minima delle multinazionali, ha scontato le proprie debolezze geopolitiche. Gli europei non se la sono sentita di mettere sul tavolo le vere armi negoziali di cui l’Unione dispone, proprio per il rischio geopolitico che questo avrebbe potuto comportare.

La lezione è semplice: contro ogni chiusura nazionalistica va rafforzata l’autonomia strategica europea, magari partendo dalla rete di accordi commerciali che possiamo concludere, dall’Asia all’America Latina. E accelerando sulla difesa comune.

Quanto all’Italia, non si può dire che abbia esercitato una particolare influenza in questa vicenda. Né in negativo — non ha rotto la solidarietà Ue — né in positivo — non ha indotto Trump a più miti consigli. Il governo si è allineato perfino più di altri alle posizioni di Bruxelles. Speriamo che ora non subentri la logica dello scaricabarile sulla Ue, magari per nascondere di fronte alle imprese e alle famiglie italiane i danni provocati dall’amico Donald Trump.

*da Repubblica, 28/07/2025

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