I luoghi di lavoro sono da sempre deputati ad accogliere le rivoluzioni tecnologiche. Fin dalla prima industrializzazione, ed ancor prima in economie e società essenzialmente agricole, sono stati loro a fare da banco di prova per il progresso tecnologico. Che si trattasse delle rumorose macchine a vapore che hanno scandito il ritmo della catena fordista, dei silenziosi personal computer che hanno sostituito il ticchettio delle macchine da scrivere o delle fotocopiatrici che in una frazione di secondo hanno scippato il lavoro agli amanuensi e archiviato la carta-carbone, una cosa è sempre (stata) vera: le innovazioni tecnologiche ed il loro impatto si misurano nei luoghi di lavoro.
Sta accadendo anche per l’ultima rivoluzione (inutile cercare dei “punto zero” che la definiscano: passano troppo in fretta): quella che possiamo chiamare, con una buona dose di genericità, intelligenza artificiale.
Non è materia per HR o giuslavoristi l’indagine della suggestiva terminologia che accompagna questa tecnologia. L’umanizzazione delle parole (intelligenza, allucinazione) e la semplificazione delle interfacce (si dialoga con l’AI, non si usa l’AI) non cambiano la sostanza del fenomeno. Quello che chiamiamo AI è uno strumento che si basa su prompt (stimolo), lavora in modo estremamente veloce pescando da una base dati e, se si parla di AI generativa, elabora nuove e diverse risposte sulla base dei precedenti.
Esaurita la generica indagine tecnica, occorre partire da un punto fermo e fondamentale: la presenza della AI sui luoghi di lavoro e nei processi HR non è negoziabile e non è una variabile. Processi qualificabili come AI o machine learning sono già inseriti in software, sistemi, strumenti e programmi attivi nella esecuzione dei rapporti di lavoro: dal payroll alla redazione di documenti, dalla ricerca di personale all’efficientamento dei processi, l’intelligenza artificiale è viva, e lavora insieme a noi.
Il contesto normativo: un cambio di paradigma
L’impatto dell’intelligenza artificiale sui processi HR è trasversale. È difficile isolare dove avviene e come funziona ed è difficile, soprattutto, identificarlo con certezza. Vale dunque la pena di procedere all’incontrario: identificare quali sono le norme che si occupano, direttamente o meno, di tecnologia e misurare attraverso di esse l’atteggiamento del legislatore nei confronti dell’AI e, successivamente, le potenziali applicazioni e criticità delle norme rispetto alla gestione delle risorse umane.
Operando in questo modo qualcosa salta immediatamente agli occhi: nei primi anni di questo millennio l’atteggiamento del legislatore è cambiato. In particolare: il legislatore, italiano certamente e in parte europeo, affida il rapporto tra legge e tecnologia a policy, descrizioni e adempimenti che le società e in generale i datori di lavoro devono adottare, senza specificare quale sia, esattamente, il contenuto. Facciamo un esempio, partendo da una delle norme cardine quando di parla di tecnologia sui luoghi di lavoro: l’articolo 4 della legge n. 3000/1970, lo Statuto dei lavoratori.
La norma, relativa al controllo a distanza dei lavoratori e approvata negli anni ’70 del secolo scorso, quando tecnologia significava una telecamera su un muro, poneva una indicazione (nello specifico, un divieto condizionato di utilizzo dei sistemi di controllo a distanza, fino alla novella del 2015) poi applicata in via interpretativa dalla giurisprudenza, a mano a mano che la tecnologia mutava. Sono degli anni ’80 le prime sentenze che equiparavano due computer messi in rete a un circuito di telecamere, ai fini dell’applicazione della norma. In breve, la tecnologia nel diritto del lavoro era trattata come qualunque fattispecie: sottoposta a norme di indirizzo e su di loro misurata, caso per caso.
Dagli anni ’10 di questo millennio, qualcosa cambia: la riforma del citato articolo 4, nel 2015, il GDPR, Regolamento Europeo in materia di protezione dei dati (2018), il cd. decreto trasparenza e le norme sui processi decisionali automatizzati, il Capo Vbis del D.Lgs. 81/2015, il “Codice dei contratti”, dedicato al lavoro tramite piattaforma, fino al AI Act, Regolamento europeo proprio in materia di intelligenza artificiale, già approvato e in attesa della prova dell’esecuzione, un disegno di legge approvato dalla Camera dei Deputati ora all’esame del Senato).
Sono queste, in via generale, norme che richiedono ai datori di lavoro, per quello che qui interessa, una regolamentazione e azione preventiva: policy, informative, catalogazioni e distinzioni degli strumenti in uso.
Una nuova frontiera regolamentare
L’insieme di policy ed informative appena ricordato costituisce un adempimento necessario e spesso complesso per l’adozione di sistemi di AI. Ignorare il requisito è una scommessa dall’esito potenzialmente gravoso. Si pensi, senza andare lontano nelle norme e nel tempo, ai provvedimenti del Garante Privacy circa i metadati delle e-mail: dinamiche e sistemi che i datori di lavoro spesso acquistano sul mercato e importano direttamente nei propri PC o sistemi. La tecnologia, sempre più un luogo di lavoro di per sé stessa con l’assottigliarsi del confine tra vita professionale e personale, diventa così un utile alleato e, allo stesso tempo, una sfida regolamentare. Chi saprà affrontarla, senza ignorare i riflessi che l’AI generativa getta su proprietà intellettuale, rapporto con gli individui e salute e sicurezza, privacy e riservatezza dei dati, potrà godere senza scossoni dei vantaggi di questa ennesima rivoluzione (post) industriale. Fino al prossimo cambio di paradigma.
*da Hronline n. 14 anno 2025
*Avvocati, Partners dello Studio Toffoletto De Luca Tamajo
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