Per molti anni, fin dal Contratto con gli italiani dell’8 maggio del 2001, la flat tax fu uno dei cavalli di battaglia di Silvio Berlusconi. Si può dire che la campagna per le due aliquote – 23 e 33% sotto e sopra i 100 milioni di lire (non era ancora arrivato il 1° gennaio del 2002) – il cavaliere l’abbia persa sotto il fuoco di sbarramento dell’Europa, del Fondo monetario internazionale, della Banca d’Italia e della ragionevolezza tributaria. Tuttavia, la formula inventata dal liberista Milton Friedman è rimasta viva e si è infiltrata nei nostri meccanismi fiscali. La questione è di stringente attualità ogni volta che, come nella corrente sessione di Bilancio, si apre la possibilità di ritoccare le tasse. Siccome l’argomento è tecnico, è utile per tutti noi riprendere i fili di un discorso che ci porta direttamente ai giorni nostri.
In primo luogo, bisogna spiegare perché questa tassa viene definita “piatta”, cioè flat. La metafora proviene dalla consapevolezza, spesso limitata agli economisti e a chi si intende di matematica, che la normale curva delle tasse in un sistema progressivo è una curva crescente al crescere del reddito imponibile. Paga più che proporzionalmente chi guadagna di più: dunque appiattire e rendere flat questa curva significa rendere il sistema proporzionale, in cui tutti pagano la stessa aliquota a prescindere dal reddito.
Perché tutto questo scandalo? La proporzionalità, nel senso comune, sembra un principio di totale eguaglianza. E invece le cose, come spiegano gli specialisti della materia, non stanno così: il denaro non ha lo stesso valore per tutti. Luigi Einaudi, che era per la tassazione progressiva (e per una robusta tassa di successione che favorisse la mobilità sociale intergenerazionale), diceva – o almeno così gli attribuisce una diffusa pubblicistica – che il povero con una lira ci comprava la minestra e il ricco una poltrona a teatro. A rischio di essere pedanti, si può immaginare il seguente esempio: prendiamo una persona che possiede 1.000 euro e una che ne possiede 100 mila. Se regaliamo 10 mila euro al primo, gli cambiamo l’esistenza almeno per un po’; se li regaliamo al secondo, non modifichiamo le sue prospettive di vita. Per questo motivo chi è più ricco deve contribuire di più e dare di più alla collettività: l’utilità del denaro, al margine, decresce.
Parti uguali tra disuguali?, come recita il sottotitolo del libro dedicato da Massimo Baldini e Leonzio Rizzo alla flat tax (Il Mulino, 2019). Le aliquote devono dunque crescere al crescere del reddito: persino oggi sono 23, 33 e 43% fino a 50 mila euro. Questo spiega perché la nostra Costituzione, all’articolo 53, dispone l’esigenza di un sistema progressivo. Tuttavia, nel mondo in cui il richiamo all’autorevolezza dei testi non sembra più sufficiente, è bene chiarire anche le motivazioni economiche e sociali che portano a preferire una strada piuttosto che un’altra.
Sul piano tecnico ci sono diverse forme di flat tax che permettono di riconoscerla o almeno di riconoscerne la filosofia di fondo. Il primo è naturalmente l’aliquota unica, che premia i redditi più alti rispetto alle aliquote progressive e penalizza i più bassi che nel sistema progressivo pagavano meno. La flat tax può articolarsi anche in due aliquote, più o meno con le stesse caratteristiche – le famose 23 e 33 proposte da Berlusconi un quarto di secolo fa. In tutti i casi si abbassa la pressione fiscale e le coperture sono salate: 50 miliardi, si calcolò allora. Per attenuare gli effetti distorsivi, si è spesso pensato a una deduzione decrescente al crescere del reddito.
È meglio far crescere nuovi ricchi coccolandoli in un clima di tiepida progressività, per poi inseguirli con una patrimoniale impopolare, o sarebbe più saggio agire al contrario?
È opportuno segnalare che l’immensa mole di risorse cui dovrebbe rinunciare l’erario per sostenere la tassa piatta verrebbe sottratta al benessere della collettività e ai beni pubblici: al finanziamento alle infrastrutture, alle politiche scolastiche, al Welfare State. Saremmo in grado di rinunciarci cedendo all’illusione di un manipolo di ricchi che vivrebbero in un Paese più povero? La flat tax, la cui bandiera oggi è brandita quasi esclusivamente dalla Lega, non sembra aver attecchito nemmeno altrove. Sono finiti i tempi in cui Berlusconi cantava le lodi di Arthur Laffer — quello della curva secondo cui meno tasse producono più sviluppo — di ritorno da un viaggio di Stato nel 2004 nella giovane Repubblica slovacca. Anche all’Est la flat tax arretra: era stata adottata più per semplicità amministrativa che per convinzione ideologica. Usciti da regimi pianificati, quei Paesi trovarono più facile gestire un’imposta unica piuttosto che inoltrarsi nei meandri del sistema progressivo. Occhio anche agli Stati Uniti: Reagan, Bush e Trump non sono mai riusciti ad adottarla.
E veniamo all’Italia. Da noi, come accennato, la formula della flat tax avanza in forme ibride. Esiste una flat tax del 15%, varata dal governo Lega-M5S nel 2018-2019, riservata al “popolo delle partite Iva” fino a 65 mila euro di fatturato, poi elevato a 85 mila dal governo Meloni nel 2023. La Lega insiste per portare il limite a 100 mila euro e nel frattempo è in corso una delega di riforma fiscale imperniata su due aliquote e una rimodulazione delle detrazioni. Il costo stimato della attuale conformazione si aggira sui 2 miliardi. E sempre di flat tax si parla nell’ultima legge di bilancio, che prevede un’aliquota piatta del 5% per gli aumenti contrattuali: misura che facilita il rinnovo dei contratti ma introduce nuove diseguaglianze tra aumenti “contrattuali” e aumenti “individuali”, che molti hanno interpretato come un intervento d’emergenza per evitare che il fisco erodesse ogni beneficio.
Se la flat tax ha poche aliquote, il nostro sistema non la adotta formalmente, ma le strizza l’occhio. La tendenza alla riduzione degli scaglioni sembra inarrestabile: nel 1991 erano 9, scesero a 5 nel 1998, poi a 4 con Draghi nel 2022, e a 3 con Meloni nel 2024. In questo duello tra progressività e proporzionalità non va dimenticato un problema che affligge l’Italia ben prima della flat tax: le cosiddette imposte sostitutive. Sostitutive di che cosa? Dell’Irpef progressiva. Di fatto, una costellazione di mini flat tax settoriali che frammentano il principio di progressività. Secondo alcuni studi, le tasse sottratte al fisco con questo sistema ammontano a 18 mila miliardi, o forse sono di più. Si pensi all’imposta sui redditi da affitto (21%), ai rendimenti dei titoli di Stato (12,5%), ai guadagni di azioni e plusvalenze (26%). Quando fu varata l’Irpef nel 1974, il padre della riforma, Cesare Cosciani, protestò proprio perché già allora la progressività era minata da eccezioni e trattamenti di favore.
Un’ultima osservazione riguarda le scelte tributarie del governo di centrodestra. La moltiplicazione delle flat tax, per settore e gruppo sociale, à la carte, rischia di restringere ancora di più il ruolo della politica, dei corpi intermedi, del pubblico dibattito: un vento neocorporativo potrebbe rendere ancora più arido il campo di battaglia del nostro Paese, con gli uni contro gli altri fiscalmente armati.
Oggi, di fronte alla tentazione dei tassa-piattisti di rendere piatto ciò che per giustizia dovrebbe restare curvo, bisogna porsi una domanda politica prima che economica: è meglio far crescere nuovi ricchi coccolandoli in un clima di tiepida progressività, per poi inseguirli con una patrimoniale impopolare, o sarebbe più saggio agire al contrario? In fondo, la scelta non riguarda solo le tasse, ma il modello di società che vogliamo disegnare: se fondato sull’uguaglianza delle opportunità o sulla rendita delle differenze.
