La discussione sui costi e i benefici delle imposte patrimoniali è utilizzata come occasione di scontro ideologico piuttosto che essere impostata su basi razionali. La Cgil ha recentemente proposto un’aliquota dell’1,3% sui patrimoni superiori ai 2 milioni, come mezzo per far pagare di più i ricchi e trasferire risorse ai poveri.
Tuttavia, questo obiettivo può essere perseguito in diversi modi, e non è detto che la patrimoniale sia quello migliore, per ragioni che hanno a che fare con i costi amministrativi, la difficoltà di accertamento e le infinite possibilità di elusione.
In linea di principio, la questione andrebbe affrontata rispondendo alla seguente domanda: come è possibile distribuire il carico fiscale nel modo più equo cercando di preservare l’efficienza del sistema e minimizzare le distorsioni?
La risposta non è semplice, e tecnici ed economisti hanno idee diverse in proposito. Tuttavia, se si imposta il problema in questo modo, non è chiaro perché la patrimoniale sia considerata “di sinistra” e perché chi la propone sia additato come un pericoloso comunista.
Il nostro sistema tributario è pieno di difetti, ed esistono ottimi motivi per cercare di alleggerire il carico fiscale sul lavoro per estenderlo ad altre forme di reddito, come rendite e patrimoni. In alternativa, si potrebbe introdurre un ‘aliquota superiore al 43% (quella che ora colpisce tutti i redditi sopra i 50mila) sui redditi più elevati, rivedere le rendite catastali per gli immobili soggetti a tassazione o cercare di assoggettare ad aliquote progressive i redditi da capitale.
In ogni caso, accendere una discussione sulla patrimoniale fa comodo sia alla destra (che può così spacciarsi per il partito che vuole ridurre le tasse) sia ad una certa sinistra (che ritiene così di rinserrare i ranghi con uno slogan ideologico efficace). Ma, su questo, la destra è in posizione privilegiata, perché le patrimoniali fanno perdere consensi, terrorizzano il ceto medio risparmiatore e fanno scappare i capitali.
Dunque, se la sinistra seguisse la Cgil su questa strada, andrebbe incontro a molti rischi e farebbe una promessa che difficilmente riuscirebbe a mantenere se tornasse al governo. La verità è che, in tutti i Paesi avanzati, il gettito da imposte patrimoniali è molto scarso, mediamente vicino all’uno per cento del Pil e mai superiore al 3%. In questo confronto, l’Italia si colloca poco sopra la metà della classifica, con il 2,4%, che equivale a circa 40 miliardi di gettito (dati Osservatorio sui Conti Pubblici).
La Cgil afferma che è possibile ricavare 26 miliardi da un ulteriore aumento dell’imposta, ma ciò porterebbe il gettito complessivo a 66 miliardi, e darebbe all’Italia il primo posto nella classifica Ocse. E lecito dubitare dell’accuratezza di tali valutazioni.
La ragione principale per cui le patrimoniali hanno scarso successo come strumento per tassare molto i ricchi (coloro che hanno una ricchezza superiore ai 2 milioni, secondo la Cgil) è che costoro hanno una composizione del patrimonio molto sbilanciata verso attività che possono essere facilmente nascoste al fisco e che non sono facilmente valutabili. In sintesi, il patrimonio dei super ricchi è composto meno da immobili (facilmente tassabili) e molto da partecipazioni azionarie in società quotate e non quotate.
Come si calcola la ricchezza rappresentata dal valore di un’impresa di famiglia non scambiata sul mercato? Quanto di questa ricchezza rappresenta il capitale investito e quanto il lavoro o il capitale umano dell’imprenditore?
Esiste anche un problema legato alla scarsa liquidità dei cespiti tassati: sulla carta, tutti sappiamo che le persone molto ricche si possono permettere di dare al fisco centinaia di miglia di euro ogni anno, ma è probabile che molti contribuenti che possiedono più di 2 milioni di ricchezza abbiano un reddito non altrettanto elevato e che siano costretti a vendere le proprie attività sul mercato per pagare le imposte.
Naturalmente, se si impegnano molte risorse e molti sforzi, queste difficoltà tecniche possono essere affrontate, anche se con incerto successo. Ma ne vale la pena? Non sarebbe meglio concentrarsi su ciò che si può fare più facilmente? Ad esempio, l’anomalia dell’Italia rispetto agli altri paesi non è l’assenza di una patrimoniale, ma il fatto che abbiamo quasi abolito le imposte di successione e le imposte sulla prima casa, tranne che su patrimoni molto elevati.
Anche in questo caso, non bisogna illudersi, l’imposta di successione è impopolare, facilmente eludibile e genera un gettito scarso, ma, almeno, si tratta di uno strumento che risponde a un chiaro principio di equità relativa alle condizioni di partenza.
Per quanto riguarda la casa, le organizzazioni internazionali, come l’OCSE e il Fondo Monetario, hanno spesso suggerito ai governi italiani di aumentare la base imponibile per questo tipo di attività, come strumento per ridurre la pressione fiscale che grava su lavoro e le imprese. Questo tipo di imposta non può essere elusa, fornisce un gettito certo e può essere resa più equa sulla base di una revisione delle rendite catastali e di soglie di esenzione.
Finora, la risposta dei governi italiani a queste raccomandazioni è stata negativa. In ogni caso, è utile riflettere sul fatto che i paesi dove le disuguaglianze sono minime, come la Scandinavia, la Danimarca e l’Olanda, hanno da tempo abbandonato la via delle imposte patrimoniali come strumento per la redistribuzione, e si servono principalmente della spesa pubblica e dei servizi gratuiti e universali.
*da La Stampa, 13/11/2025
