La questione salariale in Italia è strettamente connessa alla questione fiscale. Ambedue sono irrisolvibili se le bocce restano ferme. La prima non riguarda le altissime qualifiche, dove vige una sostanziale autonomia del singolo lavoratore e dell’azienda a prescindere dalle indicazioni contrattuali di settore.
Non riguarda in modo significativo le medie ed alte qualifiche delle grandi e medie aziende italiane, nei settori dove si contrattano i rinnovi senza troppi mesi di ritardo dalla loro scadenza e dove più frequente è la contrattazione aziendale. Per esse, la tutela dall’inflazione è praticamente adeguata e spesso la supera.
Diventa questione ostica e incancrenita per le basse qualifiche e per i lavoratori e le lavoratrici delle piccole e piccolissime aziende specialmente nei settori dove c’è un uso spropositato delle “enne” tipologie contrattuali in vigore e i rinnovi contrattuali slittano nel tempo sia per difficoltà oggettive e scarca forza contrattuale del sindacato, sia per la sempre più forte incursione dei “contratti pirati”.
Di conseguenza, vanno trovate soluzioni che rimuovano le cause di fondo delle disuguaglianze salariali che nel tempo si stanno formando all’interno stesso del mondo del lavoro. Basti pensare che l’aumento contrattuale dei metalmeccanici – da tutti considerato congruo, data la situazione economica esistente, la durezza dello scontro e ai fini della tutela del salario reale – è in cifra assoluta quasi la metà di quello ottenuto dai bancari.
Le principali cause che deprimono i livelli salariali riguardano la bassa produttività, la più alta frammentazione strutturale delle imprese, la mancanza di politiche di investimenti che inducono a puntare sempre e solo sul contenimento del costo del lavoro. Se a queste si aggiunge la bassa sindacalizzazione dei lavoratori e delle lavoratrici, il quadro depressivo è presto composto.
Basta questo elenco per comprendere che è del tutto illusorio che le dinamiche salariali in Italia si impennino nei tempi brevi. In quelli medi, si può sperare che le realtà corrispondano ai desideri soltanto se si definiscono in modo armonico soluzioni contrattuali e legislative tra loro coerenti.
Innanzitutto, la certificazione della consistenza rappresentativa dei soggetti contraenti diventa un discrimine ormai necessario per mettere ordine, anche sotto il profilo giuridico, allo svolgimento delle normali attività contrattuali.
Ferma restando la libertà associativa dei lavoratori – che in Italia ormai va ben oltre le storiche sigle di CGIL, CISL e UIL – occorre stabilire una volta per tutte che hanno validità erga omnes soltanto i contratti nazionali sottoscritti dalle organizzazioni maggiormente rappresentative. La fiera presso il CNEL delle certificazioni contrattuali, praticamente sganciate dalla verifica della rappresentatività dei contraenti, deve finire. Non fosse altro, per impedire che un qualsiasi giudice giustifichi condizioni di sotto salario per il solo fatto che l’azienda dichiari che applica un “contratto pirata” certificato dal CNEL. Oppure, come è già successo, che un giudice sentenzi quale è il giusto salario, a prescindere dai riferimenti dei contratti nazionali.
In secondo luogo, occorre cercare di ridurre la prassi di far slittare i tempi dei rinnovi contrattuali. Una intesa tra le parti sociali per istituire la mediazione obbligatoria, affidata ad un soggetto terzo predefinito dalle parti stesse, può essere un deterrente per rendere le scadenze contrattuali effettivamente esigibili. Modelli di questo genere nel mondo ce ne sono e anche interessanti. Certo, in questo modo l’autonomia contrattuale viene in parte condizionata, ma in cambio c’è la certezza di relazioni sindacali stabilizzate e riconosciute come un valore in sé, dal quale non si prescinde in un sistema democratico.
Tutto ciò non basta per dare la più efficace dinamicità alla produttività del sistema delle imprese italiane ed affrontare con determinazione la triplice sfida demografica, ambientale e tecnologica. Prioritariamente sono tre le linee strategiche per favorire questo sforzo innovativo.
Il primo è che si delinei una politica per continuare a dare robustezza alla manifattura di questo Paese. C’è un rischio di precipitoso declino se si continua con la politica del rinvio e del tamponamento come si sta facendo nella vicenda dell’ILVA; ricordiamolo: è il posto dove si produce il migliore acciaio dell’Europa. Le indicazioni del Rapporto di Draghi sono lì, pronte per essere prese, portate in Europa e cooperare perché nascano e crescano pivot del manifatturiero europeo.
Il secondo è che si ponga al centro della strumentazione per la crescita della produttività la formazione culturale e professionale delle nuove generazioni (sulla quale c’è molto da dire, ma non in questa circostanza) ma anche quella degli adulti, sia per riqualificarli sul lavoro, sia per garantire la mobilità da posto di lavoro a posto di lavoro, quando si formano sacche di “esuberi”. Il lato scoperto è proprio quest’ultimo, che diventerà sempre più rilevante, quanto più avanzerà l’applicazione dell’Intelligenza Artificiale nelle attività produttive. Un nuovo ruolo delle parti sociali nella gestione della mobilità, sul modello del settore degli edili, ed una politica Keynesiana dell’Europa e dell’Italia in fatto di risorse da metter a disposizione è essenziale per non ridurci a chiedere rinvii delle politiche green e dell’innovazione digitale.
Il terzo è la politica fiscale. La dimensione delle imprese deve crescere per ottenere margini visibili di produttività. Ma fin quanto la logica fiscale è quella che è in auge e cioè del “poco ma subito” attraverso l’espansione della flat tax, la convenienza è di rimanere piccolo ma non più bello. E’ una cultura che sta facendo scuola se finanche il sindacalismo confederale si è allineato, chiedendo e ottenendo che gli aumenti contrattuali siano defiscalizzati. Ci vuole una nuova politica fiscale che riduca l’evasione con incentivi che producano conflitto di interesse tra consumatore e produttore di beni e servizi; che non crei sacche di tutele corporative con le deduzioni e i bonus; che affronti senza ideologismi la tassazione dei patrimoni immobiliari e finanziari con una logica di progressività come Costituzione indica dato che la pratica in corso la smentisce.
Un po’ di riformismo dovrebbe essere riproposto dal mondo del lavoro e dalle forze progressiste. Ha proprio ragione Cacciari: “Se l’opposizione cessasse di inseguire e costruisse una propria strategia riformista, potrebbe far leva sulle contraddizioni che l’attuale Governo occulterà con fatica sempre maggiore e rimescolare le carte nella stessa opinione pubblica, anni luce lontana dai vecchi schemi di destra e sinistra” (Il riformismo che manca all’opposizione, La Stampa 30/11/2025).
In altre parole, bisogna rimettere in marcia energie nuove e competenze messe in un angolo del Paese. Occorre rispondere al disamore per la politica che si esprime con regolarità insistente ogni volta che la gente è chiamata al voto, non con gli appelli, ma con parole d’ordine credibili e corrispondenti alle sensibilità popolari. Osare la partecipazione delle persone è sempre stata la chiave per un avanzamento della consapevolezza e del progresso.
