Più ci occupiamo della questione lavoro, più impattiamo nella questione formazione. Più focalizziamo questa tematica, più s’ingigantisce la centralità della scuola e della dimensione culturale dei giovani e dei meno giovani. Più cresce la consapevolezza dell’importanza dei saperi, più si comprende che i pregi e difetti della nostra società sono in buona parte riconducibili all’abbondanza o alle limitazioni dell’accumulazione individuale e collettiva delle conoscenze.
Studiare, lavorare, pensionare – che per alcune generazioni è stata la scansione normale del ciclo vitale umano – ha perso il suo fascino. Quella scansione fu una conquista di civiltà, non un pasto gratuito. Era una rigidità ma, in fondo, tranquillizzante. Il futuro è sembrato già scritto, anche se ciascuno poteva, giustamente, metterci del suo perché fosse sempre più soddisfacente. Ci si poteva permettere il lusso di vivere queste fasi come dei compartimenti stagni. Anzi, specie la mia generazione ha fatto dell’autonomia della cultura, rispetto al lavoro e al post lavoro, una bandiera; salvo poi scoprire che non avrebbe potuto sventolare perché dura come un muro portante.
Avevamo le nostre ragioni, in quel ‘68 del secolo scorso, data l’indifferenza delle classi dirigenti economiche e politiche di allora (salvo qualche illuminata eccezione) verso non dico l’università di massa, ma verso la lotta all’analfabetismo giovanile e a quello di ritorno. E per la verità, quel velleitarismo autonomista non fu neanche tanto sterile, perché portò soprattutto il movimento sindacale, nel giro di un decennio, a rivendicare nei rinnovi contrattuali le 150 ore per il diritto allo studio e consentire così, a centinaia di migliaia di lavoratori, di conseguire la terza media.
L’errore è stato nel non vedere che separare studio e lavoro, mantenere a debita distanza lo studente e l’impresa, né gratificava l’uno, né avvantaggiava la seconda. Ora ci rendiamo conto che abbiamo perso molti treni. Che non abbiamo reso strutturale il recupero di quel rapporto in chiave adulta e non di subordinazione dello studio alla produzione. Che, anche se possiamo elencare tante eccellenze sia in campo intellettuale che produttivo, abbiamo il fiato corto, rispetto a quei Paesi che invece hanno investito da tempo nella collaborazione tra mondo della cultura e mondo delle attività produttive.
Soltanto ora si incomincia a delineare una strategia compiuta di impegno di risorse, di competenze, di progettualità e di accantonamento delle asprezze ideologiche del passato. Non c’è chi non vede che sempre più persone – giovani, adulti e anziani – studiano e contemporaneamente lavorano o riempiono la loro vita da pensionati informandosi, acculturandosi e perché no, lavoricchiando. I compartimenti stagni sono saltati e sono pochi quelli che pensano che la nostra società sia peggiorata per questo.
Recuperare il ritardo è l’imperativo della fase post industriale che stiamo vivendo. Questo bisogno può essere soddisfatto da una buona applicazione del cortocircuito tra orientamento e alternanza scuola lavoro previsti dalla riforma della scuola, contenuta nella legge 107. Non più considerato un impegno volontaristico sia della scuola che delle imprese, ma sistema permanente e obbligatorio di coinvolgimento degli studenti delle ultime classi delle medie superiori e del mondo del lavoro.
Le prime indicazioni che provengono dall’avvio del progetto riformistico suggeriscono di non trarre conclusioni affrettate. C’è la necessità di un periodo di assestamento, durante il quale errori ed omissioni non vanno enfatizzati, anche se è bene non minimizzare o peggio, in nome della voglia di dimostrare che si fa, raffazzonare le iniziative che vengono avviate. Penso che l’unica cosa da evitare con i giovani è far credere che è un atto dovuto, una finzione, una sorta di visita scolastica, sparpagliata nella città o paese.
Deve essere impostata come una proposta vera, che serve, che deve durare nel tempo, che può incidere nella coscienza dell’essere studente prima ancora che futuro lavoratore. Per questo e’ opportuno:
– Che si dia pari importanza sia all’orientamento che all’alternanza, perché nei limiti del possibile, si finalizzi la seconda alle attitudini e alle informazioni sul primo, anche con supporti informatici come “wecanjob.it” (vedere il sito per credere); la ricerca di ambienti lavorativi dove andare a “spendere” le ore di alternanza, renderebbero di più se si basasse su un’ attenta valutazione delle reazioni degli studenti all’orientamento.
– Che i programmi di alternanza siano prevalentemente qualificati dalla conoscenza di “come si organizza il lavoro” piuttosto che dal “saper fare”, dato che gli aspetti relazionali risulteranno sempre più decisivi per un buon adattamento tecnico operativo.
– Che chi nella scuola si occupa di organizzare l’orientamento e l’alternanza, venga formato adeguatamente, si impegni almeno per un triennio consecutivo e sia messo nelle condizioni di non fare un “doppio lavoro”; cercare le aziende disponibili (per ora, una spuria minoranza) al contatto con gli studenti, costruire con esse piani di attività, in un rapporto duraturo nel tempo implicherebbe un vero e proprio “distacco ad acta”, almeno parziale, dall’insegnamento.
– Che nelle aziende cresca una cultura dell’interazione tra scuola e lavoro, prima ancora che dell’accoglienza dei giovani, convincendosi che non si tratta di fare un favore all’istituzione scolastica o accontentare l’insegnante amico, ma di praticare un investimento sociale che, se ben gestito, può trasformarsi finanche in un loro vantaggio economico; ovviamente, è più complicata l’adesione delle piccole e medie imprese rispetto a quanto possono fare le grandi, ma senza il loro apporto, il progetto universalistico non andrà mai a sistema e per questo sarebbero utili e necessari sia il coinvolgimento delle organizzazioni di rappresentanza, sia qualche incentivo per quanti aderiscono al progetto.
In questa visione, ben si colloca la revisione dell’apprendistato, definita recentemente dal governo. La figura dell’apprendista non ha avuto vita felice in Italia. Salvo alcuni settori, le aziende non hanno mai fatto “man bassa” di questo istituto. Ne avevano ben altri a disposizione, anche meno costosi, ma certamente più flessibili e meno impegnativi. Con un funzionamento serio dell’orientamento e dell’alternanza – visti come un tutt’uno – per le aziende si aprirebbe una prospettiva di conoscenza delle attitudini e delle capacità dei giovani e quindi di più sicuro ricorso all’apprendistato come potenziale completamento dello start up del loro inserimento nell’azienda. Ma sarebbe un vantaggio anche per i giovani coinvolti, perché potrebbero meglio schivare la penosa trafila della precarietà.
Infine, una visione unitaria dell’orientamento e dell’alternanza può influire positivamente nel ridurre il divario – ora molto consistente – tra ciò che si studia e le competenze che vengono richieste dal mercato del lavoro. Competenze non soltanto o prevalentemente tecniche, ma – come si è detto – di tipo relazionale e comportamentale che sempre di più caratterizzeranno l’economia digitale.
Studio e lavoro continueranno ad avere le loro autonomie. E’ impensabile che uno possa fagocitare l’altro e viceversa. Il sapere e il fare sono in costante evoluzione e l’uno ha bisogno dell’altro per non essere succube di forze e di interessi ad essi esterni ed estranei. Di questo, le organizzazioni di rappresentanza sociale e soprattutto il sindacato, prima ancora che le istituzioni e la rappresentanza politica dovrebbero apprezzare il significato non corporativo ma raffinatamente umano che assume questo supplemento di impegno verso i giovani. Perché è un impegno di senso più che di convenienza, di speranza più che di prammatica.