Sono tre i temi che ci dividono dalle scelte fatte dal Governo e dal PD in questa legislatura, e che quindi saranno oggetto di una diversa proposta per le prossime elezioni.
Il primo è il giudizio sul Jobs Act. Guardando i dati concreti questa legge non ha avuto l’effetto di ridurre la precarietà dal lavoro. L’occupazione è cresciuta con la ripresa economica, ma il suo segno distintivo resta quello della precarietà. Il contratto a tempo indeterminato è sempre più marginale rispetto alle nuove assunzioni. La conclusione è semplice: si sono spesi tanti miliardi, si sono allentate le tutele in materia di licenziamenti individuali e collettivi senza che la contropartita della stabilità del lavoro sia stata raggiunta.
Avere reso il contratto a tempo determinato così flessibile e conveniente per le imprese ha fatto il resto, insieme poi alle tante tipologie di lavoro (stages, tirocini e altro) che, nate per formare, si sono in realtà rivelate come occasione di occupazione senza costo e senza retribuzione.
Lo stesso intervento per ridurre i tempi degli ammortizzatori sociali non è andato nella giusta direzione. E averlo fatto con gli effetti della crisi ancora presenti in tante aziende e tanti territori ha finito per produrre problemi e frizioni sociali senza giustificazioni.
Anche qui, come per l’articolo 18, si è prodotta una divaricazione sociale tra lavoratori colpiti da crisi complessa e gli altri, con due diverse cadenze temporali dalle forme d’integrazione al reddito. Va inoltre detto che anche tutta la parte delle politiche del lavoro ha avuto e ha un esito deludente.
Le procedure, gli istituti, e le risorse messe a presidiare i processi di formazione, di accesso al lavoro e di accompagnamento nei casi di ricollocazione delle persone, hanno mostrato ritardi, difficoltà, e risultati diversi tra i territori.
Questa è forse la questione più necessaria, e anche più difficile, per ammodernare il nostro sistema del lavoro. E proprio per questo avrebbe meritato una centralità, una capacità d’innovazione, e un risultato di altro e segno e consistenza.
La seconda questione riguarda il modo di governare e il rapporto con le parti sociali.
Negli anni del suo Governo, Renzi ha irriso la concertazione e attaccato spesso i
sindacati, a partire da giudizi inaccettabili e gratuiti rivolti alla CGIL. Con Gentiloni le cose sono migliorate: più rispetto e qualche tavolo di confronto. Quale modello
quindi il PD propone? Il primo, quello del segretario, o il secondo quello dell’attuale Presidente del Consiglio? Per me vale una considerazione elementare: non si governa da nessuna parte e in un nessun paese senza processi di intermediazione sociale.
Il vero nodo quindi non si racchiude nel dilemma, concertazione sì concertazione no, ma nella natura e nella forma della mediazione: se pubblica, trasparente, esplicita e quindi verificabile, o invece riservata, segreta e quindi opaca.
In fine c’è un diverso modo di intendere la strada dello sviluppo, e della crescita dell’occupazione. In questi anni si è fatta molta politica dei bonus e delle erogazioni a pioggia e poca politica di investimenti pubblici.
Il nodo è rilevante perché è noto che il paese anche ma non solo, per la crisi, ha visto il crollo della spesa pubblica per investimenti. Questo rende più basso il tasso di sviluppo, e più lacerato il tessuto della sicurezza ambientale, del decoro urbano, e della qualità dei servizi legati all’infrastrutturazione pubblica, dai trasporti alle comunicazioni. Nella crisi gli investimenti pubblici in conto capitale sono calati del 30%, e il PIL quasi del 10%. Per ogni punto di PIL in meno tre sono stati i punti persi della spesa, la quale è tornata in valore e quella di 20 anni fa. Spesso in questi anni abbiamo ascoltato di propositi e stanziamenti nei diversi settori. Si è detto che bisognava mettere in sicurezza tutte le scuole, intervenire nella sistemazione del territorio, delle zone sismiche e delle zone interne, aiutare i comuni a intervenire verso i bisogni delle comunità locali, accompagnare una conversione ecologica dell’economia nel settore dei trasporti e delle fonti rinnovabili. Se però si guardano non le intenzioni ma i fatti concreti si vedrà che le cose non tornano e che il Paese è rimasto sostanzialmente fermo. E ferme sono rimaste le possibilità di spesa dei comuni, dai quali storicamente passano il 2/3 degli investimenti pubblici del Paese.
Senza investimenti pubblici, oltre a quelli privati che hanno ripreso a crescere, l’Italia perde coesione e perde competitività. Quando osserviamo il tasso della crescita del nostro Pil nel rapporto con la crescita europea, o quello del tasso di disoccupazione rispetto all’analogo dato medio dei 28 paesi, sta proprio nel calo degli investimenti pubblici l’origine delle nostre difficoltà e della nostra posizione in classifica.
Aggiungo che tra un taglio di tasse o un aumento di spesa pubblica in investimenti il moltiplicatore economico e sociale suggerisce di privilegiare la seconda strada se vuoi riprendere a crescere con la forza necessaria a generare più occupazione e più occupazione di qualità.