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Un sogno di pace è ancora possibile in Israele?

Sono giorni drammatici per Gerusalemme. La decisione del Presidente americano, Donald Trump, di insediare l’ambasciata Usa a Gerusalemme sta creando caos e morte. Eppure, tra mille difficoltà, c’è ancora, in Israele, chi non si rassegna. E’ il caso del piccolo villaggio, situato nella biblica Valle di Ayalon, di Neve Shalom. Ne parliamo, in questa intervista, con il teologo Brunetto Salvarani.

 

Brunetto Salvarani, il bellissimo libro da te curato, “Il folle sogno di Neve Shalom – Wahat al-Salam”, tratta del sogno realizzato di Padre Bruno Hussar, domenicano francese di radici ebraiche (di lui parleremo più avanti), di creare, nella valle di Ayalon, molto significativa dal punto di vista biblico, un villaggio della Pace dove potessero convivere ebrei, palestinesi, cristiani ed anche non credenti. L’uscita del libro si colloca in una fase, l’ennesima, drammatica per quella terra. Tanto che viene alla mente un detto del Talmud: “10 misure di dolore vennero date al mondo, nove ne prese Gerusalemme e il resto il mondo”. A guardare la storia millenaria di Gerusalemme il Talmud ha perfettamente ragione. Adesso, dopo la pericolosa decisione di Trump di spostare l’ambasciata Usa a Gerusalemme, stiamo vivendo l’intifada.  Una iniziativa, quella di Trump, destabilizzante per tutta la regione. Qual è il tuo pensiero?

 

Ti ringrazio, innanzitutto. Questo volume, cui tengo molto, è stato pensato in occasione di due ricorrenze concomitanti: i venticinque anni dalla nascita dell’Associazione italiana degli Amici di Neve Shalom – Wahat al-Salam, fortemente voluta da una delle figure chiave del dialogo ebraico-cristiano in Italia, Renzo Fabris, e i vent’anni dalla scomparsa del domenicano Bruno Hussar. Al di là del dato occasionale, peraltro, il libro ha l’ambizione dichiarata di colmare un duplice vuoto nell’editoria italiana: da una parte, in relazione alla vicenda straordinaria di Hussar,  davvero un signore dei sogni (ba’al chazon), fra l’altro personaggio centrale nella rinascita di una chiesa cattolica in lingua ebraica, la Kehillà (oggi Vicariato di San Giacomo); e dall’altra, riguardo al Villaggio della Pace, su cui esiste una vasta pubblicistica ma non un testo completo recente cui poter fare riferimento (l’ultimo pubblicato in italiano era ormai fuori commercio, risalendo a venticinque anni fa). 

Venendo alle cose di questi giorni, e augurando di sbagliarmi, ritengo la decisione di Trump una catastrofe, capitata in un quadro stagnante e tristissimo per il conflitto israelopalestinese. Forse l’ipotesi interpretativa su cui lavorare per riprendere il filo di un ragionamento razionale sul futuro di israeliani e palestinesi potrebbe essere quello dello scenario a corto raggio, che provi a distinguere il destino dei due popoli dallo scenario macroregionale drammatico che abbiamo tutti sotto gli occhi da diversi anni. Il fondamento di questa ipotesi – che la scelta statunitense temo non aiuti – è nella storia dell’ultimo quarantennio e soprattutto nel fossato che, al di là della trita retorica panarabista, si è scavato tra il destino dei palestinesi e quello dei fratelli arabi. In oltre mezzo secolo di conflitto, israeliani e palestinesi si sono conosciuti come pochi altri popoli: insieme hanno vissuto drammi e speranze speculari e proprio per questo perfettamente comprensibili sia agli uni che agli altri. Luoghi simbolici e profetici come Neve Shalom – Wahat al-Salam sono e sono stati un eccezionale laboratorio nel quale generazioni di studenti hanno imparato un vocabolario comune e hanno condiviso interpretazioni se non univoche quanto meno compatibili della storia dei loro popoli. Ma l’Oasi della pace non è un’isola ed è circondata da molte altre realtà che, con pochi mezzi, tanta tenacia e altrettanta fatica, tessono il filo del dialogo tra i due popoli. Penso, ad esempio, alle donne che hanno aderito a  Women Wage Peace, e che nell’autunno del 2016 ma anche in seguito hanno dato vita a una mobilitazione durata due settimane marciando insieme tra villaggi e città sia israeliane sia palestinesi: “Sono qua con donne che hanno scelto coraggiosamente di intraprendere una strada che non è ancora percorsa – ha dichiarato rivolta a un pubblico israeliano Huda Abuarqoub, donna palestinese nata a Gerusalemme e cresciuta a Hebron, direttrice regionale dell’Alleanza per la pace in Medio Oriente. – Una strada di speranza, amore, luce, dignità, inclusione e riconoscimento reciproco. E sono anche qui per dirvi, sì, avete un partner, lo avete visto!”.

 

 

All’interno di Neve Shalom c’è una scuola per la pace. Davvero un piccolo seme di utopia in Israele, una fonte di pace, piccola ma preziosa. Tutto questo avviene nel segno di Bruno Hussar. L’uomo dalle quattro identità, il “costruttore di ponti”. Che messaggio ci viene da Neve Shalom a noi europei, così pieni di paura, che costruiamo muri?

 

Rispondo volentieri a questa domanda, perché ritengo che la Scuola per la Pace sia un’istituzione largamente profetica, rispetto a quando nacque. Fondata nel ’79, essa è stata pensata sin dall’inizio come realtà capace di far sentire in massima misura verso l’esterno l’impatto educativo di NS-WaS (“Anche la pace è un’arte, che non s’improvvisa, ma deve essere insegnata”, ripeteva spesso padre Bruno). Sin da quando l’ho conosciuta – ricordo che me la presentò, durante una mia visita al Villaggio nei primi anni Novanta, l’amico Abed Najjar, che all’epoca vi lavorava – ho pensato che l’idea di educarci a gestire le differenze e i conflitti con metodologie attive fosse un’intuizione eccezionale, anche perché portava a un faccia a faccia, per quanto duro, oltrepassando pregiudizi e precomprensioni. Il messaggio che ne viene a noi, un messaggio che per quanto mi riguarda colsi bene già allora, è che i muri non servono a nulla, salvo che a esacerbare ulteriormente gli animi: serve guardarsi in faccia, parlarsi, tirare fuori apertamente i problemi e provare a gestirli il più possibile insieme. I muri chiudono le relazioni, le impediscono radicalmente: e noi abbiamo bisogno, per quanto sia difficile, di aumentare e migliorare le relazioni.

 

Parliamo, ora, di Bruno Hussar. Prima lo abbiamo un poco tratteggiato. Adesso cerchiamo di conoscere la sua profondità. Abbiamo detto l’uomo delle “quattro identità”, e la  coabitazione interiore non era facile. Eppure, ed è questa la sua grandezza, non ne ha rinnegata una. Ti chiedo: lui si  sente un figlio di Israele, la prima radice, e su questa radice compie il “miracolo” della pienezza di ciascuna identità. Il suo non è sincretismo, è pienezza. Come avviene questo percorso? Sappiamo che viene  alimentato dalla sua storia concreta fatta di grandi incontri, è così?

 

“Al di là di ogni tappa particolare, vivevo e vivo sempre per Israele e per la sua pienezza, per la riconciliazione, la pace e la comunicazione fraterna tra i figli di Abramo, perché la Buona Novella dia vita al mondo…”: così lui, hai detto bene, l’uomo dalle quattro identità, nella sua autobiografia, spiegava il senso del suo sogno, da autentico ba’al chazon, uomo di visioni, che già l’aveva condotto in Israele nel 1953 (appena un lustro dopo la fondazione dello stato) a fondare, a Gerusalemme nel 1960, la Maison Saint  Isaïe, spazio qualificato per l’insegnamento della Bibbia nella terra dei Padri, e poi a collaborare in maniera decisiva alla stesura della dichiarazione conciliare Nostra aetate. L’ulteriore tappa sarebbe stata la nascita di un sito concreto in cui ogni componente etnica e religiosa avrebbe scelto di abitare nell’uguaglianza e nella collaborazione reciproca, appunto il Villaggio della pace. A suo parere, una comunità tesa a proporsi come autentica oasi di pace – questo il significato, in ebraico e in arabo, della sua denominazione sarebbe potuta fiorire soltanto se nel suo àmbito si fosse mantenuto e fatto salvo il ventaglio più ampio possibile di risorse spirituali presenti in coloro che accettavano di condividerne la costituzione e il destino.  E perciò, in omaggio alla sua eccezionale apertura a tutti gli altri, Hussar scelse di avere al proprio fianco persone con i più diversi retroterra ideologici (politici e religiosi), evitando con ogni scrupolo gli aut-aut dottrinali, valorizzando le differenze culturali ma anche gli aspetti complementari delle rispettive tradizioni e cercando, soprattutto, di garantirsi che i suoi compagni fossero uomini e donne sinceramente impegnati a rispettarsi nella diversità e a tessere, giorno dopo giorno, artigianalmente, la tela della pacifica convivenza. E così sarebbe stato…

 

Lui venne mandato, dal suo ordine religioso (i domenicani), in Eretz Israel a “rifondare” la Chiesa di Sion. Un’opera profetica, fatta ancor prima del Vaticano II. Ti chiedo quanta consapevolezza,    c’è nel popolo di Dio ,   che la Chiesa ha due polmoni (ebrei e gentili)? Senza la prima  radice la Chiesa perde il suo Signore. E’ così?

Certo, è così. Gesù è ebreo, anche se per, tanti secoli, non ce ne siamo accorti. Fino in fondo. Anzi, si potrebbe aggiungere che l’ebraismo di Gesù non traspare solo in qualche particolarità dei suoi atteggiamenti, ma costituisce la modalità di fondo dell’intera sua esistenza; è il suo modo di vivere, di pensare e, ovviamente, di credere in Dio. L’ebraismo è, per così dire, il campo ermeneutico della sua personalità, all’infuori del quale la sua esistenza umana non è più espressiva, oppure tende a ricevere delle connotazioni a lui profondamente estranee, proiezioni delle nostre più svariate ideologie, com’è effettivamente accaduto nel corso della storia: dal Gesù moralista liberale a quello socialista rivoluzionario, per tacere delle tante reinterpretazioni in chiave trionfalistica del passato, nel tempo della cristianità. Il che, peraltro, non significa che egli sia riducibile a una certa somma d’influenze ambientali, o che non possieda una sua originalità del tutto singolare: però la sua stessa originalità si conserva, a ben vedere, perfettamente ebraica, comprensibile solo nelle pieghe del giudaismo. Egli non ha affatto inteso rompere con esso. Se la polemica antigiudaica, nei vangeli, è talora assai aspra, si può legittimamente ritenere che non sia tanto sua, ma rappresenti piuttosto un’esasperazione della chiesa primitiva, scritta quando, alcuni decenni dopo la sua morte, i rapporti fra (buona parte de)gli ebrei e i cristiani (spesso a loro volta ebrei di nascita e fede) si erano deteriorati. Basterebbe vedere, ad esempio, il modo in cui Matteo trasforma una parola di Gesù sul raduno escatologico dei dispersi d’Israele in un giudizio senza appello contro i figli del Regno e in favore soltanto dei pagani (cfr. Lc 13,28-29 con Mt 8,11-12). D’altra parte, c’è un Gesù che a lungo è rimasto nascosto alla precomprensione cristiana: il Gesù che si esprime comunemente nel dialetto aramaico della Galilea, osserva con scrupolo la Torà, certo reinterpretandola alla sua maniera, insegna nella sinagoga, accetta dispute con i farisei e con i dottori della Legge come qualunque altro rabbi…

 

 

Venne il Concilio Vaticano II, il Concilio della svolta con gli ebrei. Un passaggio importante per Hussar…

Sì, è vero. Il 25 gennaio 1959 papa Giovanni XXIII annunciava la convocazione del Concilio Ecumenico, e padre Bruno capisce immediatamente come questo avvenimento possa diventare decisivo per cambiare i rapporti tra cristianesimo ed ebraismo; da subito opera affinché questa storica occasione non venga sprecata. Senza riassumere qui tutta la complessa attività da lui svolta e la complicatissima storia del “testo ebraico”, la dichiarazione conciliare Nostra aetate, eccone una succinta cronologia: 1960 e ’61, Hussar partecipa alle riunioni di Apeldoorn, durante le quali una ventina di teologi elaborano una supplica per il Concilio. Dopo molte peripezie questo testo diventerà la base del cosiddetto testo ebraico dal quale deriva il quarto paragrafo della Nostra aetate. Visita il cardinal Augustin Bea, che presiede il Segretariato per l’unità dei cristiani, che gli legge un testo appena composto, su precisa richiesta di Giovanni XXIII. Questo testo esprime la contrizione per i peccati commessi contro gli ebrei, l’amore dei cristiani verso i fratelli maggiori nella fede e la ferma volontà di riformare il proprio insegnamento nei loro riguardi. Nel 1964 viene chiamato a partecipare, in qualità di esperto, ai lavori della Commissione conciliare del Segretariato per l’Unità dei Cristiani, organismo competente per la redazione e la presentazione del testo ebraico. Nello stesso anno la Commissione conciliare, dopo un decisivo intervento di padre Bruno, approva il testo proposto dal comitato di redazione. Infine, il 20 ottobre 1965 la dichiarazione sugli ebrei, inclusa nella dichiarazione conciliare Nostra aetate viene approvata dal plenum e papa Paolo VI la promulga solennemente otto giorni dopo. Non era un testo esaustivo ma rappresentava un buon inizio, una vera svolta.  Nella circostanza, il contributo di Hussar fu tale che, sette giorni dopo, ricevette la cittadinanza d’Israele che aveva atteso per anni. 

 

 

Bruno Hussar,  come già detto, è stato figlio di Israele. Non solo sul piano teologico ma anche sul piano politico. Qual è la sua lezione politica?

Mi chiedo spesso se l’intuizione di padre Bruno, Neve Shalom- Wahat al-Salam, a oltre quarant’anni dai suoi primi insediamenti, sia ancora necessaria, anche sul versante politico. E mi rispondo, in genere, a tre livelli. Il primo è che senza la pace tra Israele e Palestina – oggi purtroppo realisticamente così lontana dal realizzarsi – non ci potrà essere pace a livello mondiale: una di quelle frasi che udiamo continuamente, e rischiamo di dare per scontate. Per molte ragioni. In primo luogo, per l’aumento esponenziale dei fondamentalismi vicendevoli: veniamo da una stagione in cui le rivendicazioni delle identità sono diventate chiusure identitarie e giustificazione ai rancori e ai fondamentalismi di ogni matrice, e solo di recente – grazie soprattutto all’azione instancabile di papa Francesco – la parola dialogo è tornata pronunciabile.  Il secondo motivo è per il messaggio interculturale che ci viene dal Villaggio della pace. In particolare negli ultimi anni e mesi è emersa dalle cronache una vistosa difficoltà in Europa rispetto al tema chiave dell’immigrazione, con tre ipotetiche soluzioni: il modello comunitarista di marca anglosassone, il modello nazionalista-assimilazionista di tipo francese, e il modello non-modello italiano, quello che non decide e continua a vedere l’emergenza sempre e comunque. Modelli diversamente in crisi, oggi. Cogliere questo momento di crisi spinge ancor più a valorizzare il Villaggio, nella prospettiva offertane da padre Bruno e nella realizzazione concreta delle famiglie che vi risiedono, come una realtà autenticamente profetica! La terza ragione riguarda il messaggio che proviene dal Villaggio sul versante interreligioso. Forse, è questa la partita più delicata…  Hussar, che era una civetta capace di vedere nella notte nonostante il buio pesto, aveva intuito che dalle religioni in quanto tali non fioriscono necessariamente germi di pace ma, spesso, sono preda e causa di conflitti irrisolti, per cui il fatto di operare insieme nella quotidianità, nel dialogo della vita non è per nulla secondario. Da qui, lo spazio del silenzio, Dumia-Sakinah, forse la sua eredità più personale. Con tanti altri amici commossi ho accompagnato nel suo estremo tragitto padre Bruno al piccolo cimitero del Villaggio, posto a fianco di Dumia-Sakinah, a febbraio del ’96, in uno strano giorno di pioggia che però – mentre giungevamo alla meta – era stata sostituita da un sole abbagliante, con il contorno di un fulgido e simbolico arcobaleno. Quel silenzio, quel momento di sosta in un luogo senza contrassegni di simboli religiosi, al di là delle identità confessionali, è un’eredità ancora assai fertile… E che domani, mi auguro, produrrà ancora di più… Mi torna in menteuna Lettera agli amici di Bose, inviata a Pentecoste 2016, dove Enzo Bianchi scrive: “…ancora una volta ribadiamo che siamo in attesa di un’insurrezione della coscienza dei cittadini: se non c’è questa insurrezione, se non si è capaci di fare resistenza, se ci si lascia sedurre dal così fan tutti gli altri, allora la nostra già debolissima democrazia dovrà lasciare posto alle forze più o meno oscure che tentano di regnare in tutto l’occidente. Certo, perché la coscienza insorga e riapra cammini di speranza è necessario pensare, fermarsi a riflettere per non cedere all’aporia degli orizzonti chiusi ed è, quindi, indispensabile ritrovare un altro rapporto con il tempo: senza tempo, infatti, non c’è memoria né progettualità, non c’è possibilità di futuro e di azione”. E’ una fotografia efficace della lezione di padre Bruno.

Ultima domanda: A vent’anni dalla morte cosa resta di quel “profeta di riconciliazione  e pace in Israele”?

Ho avuto modo di frequentare quell’impareggiabile artigiano della pace soltanto negli ultimi dieci anni della sua vita, ma so che proprio la sua amicizia e la crescente dimestichezza con il suo messaggio mi hanno offerto stimoli per cogliere alcuni degli aspetti più delicati delle relazioni tra gli uomini, con particolare riferimento alle radici identitarie di molte conflittualità e ai gravi ostacoli che tutti i processi di pacificazione generalmente incontrano. Di lui ci resta molto, io credo, come spero si sia colto dalle risposte precedenti. Ora, la domanda inevitabile riguarda la capacità di chi resta – al Villaggio ma anche altrove, nella sua Chiesa e nel suo ordine, ad esempio – di fare memoria del suo lascito, che in realtà va molto al di là di quel periodo, impossibile racchiudere in poche righe: operazione delicata e complessa, in un’epoca di smemoratezza collettiva senza eguali. E soprattutto, di farne una memoria, alla Metz, davvero pericolosa e sovversiva, senza inutili reliquiari, ma capace di metterci in crisi. Lo dobbiamo a lui, e ancor più a chi verrà dopo di noi.

 

 

Dal sito: http://confini.blog.rainews.it/2017/12/13/un-sogno-di-pace-e-ancora-possibile-in-israele-la-storia-di-neve-shalom-intervista-a-brunetto-salvarani/

      

 

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