Difficile, se non impossibile, dare un giudizio sulla legislatura appena conclusa senza considerare i risultati elettorale del 2013 e le vicende che hanno portato alla rielezione di Napolitano alla presidenza della Repubblica e alla formazione del governo Letta.
Il successo dei 5stelle, la mancanza di una maggioranza omogenea tra Camera e Senato, la scelta di rieleggere Napolitano notoriamente ostile a nuove immediate elezioni, ha portato alla formazione nell’arco di pochi giorni del governo Letta senza una discussione sul programma di governo (nulla di paragonabile a quanto avvenuto allora e a quanto avviene oggi in Germania, nella prospettiva di una grande coalizione) e con la rottura delle coalizioni di Cd e di Cs che si erano presentate alle elezioni. Sel e Lega, infatti, votarono contro il governo. Gli unici impegni presi furono quelli di affrontare una revisione della Costituzione tutta da definire, e quello, voluto da Forza Italia, di abolire l’Imu sulla prima casa. Nulla vi era del programma della coalizione elettorale di centrosinistra.
Con la rottura di Forza Italia, in seguito alle vicende di Berlusconi, non è mutata la natura del governo Letta prima e Renzi poi, sempre frutto di una alleanza imposta dai risultati elettorali Altro elemento da considerare: la seconda profonda recessione, dopo quella del 2008/09, in cui era caduta l’Italia anche per effetto delle misure del governo Monti e i vincoli di finanza pubblica imposti dal fiscal compact.
Stretto da questi vincoli e dalla necessità di recuperare gli oltre 4 mld di entrate persi con l’abolizione dell’Imu sulla prima casa, il Governo nulla concesse al sindacato. Il ministro del Tesoro Saccomanni disse no alle richieste delle parti sociali, sindacato e Confindustria, di stanziare otto mld per diminuire il costo del lavoro e l’Irpef per i dipendenti e di destinare il ricavato della lotta all’evasione alla diminuzione della pressione fiscale. Letta corresse tutte e due le volte il suo ministro ma nella legge finanziaria nulla di tutto questo trovò spazio. Tante assicurazioni formali, ma in concreto nessuna trattativa e nessun risultato per il sindacato.
In realtà, non vi era più stata una vera trattativa tra sindacati e governo dall’Accordo welfare del 2007 stipulato con il governo Prodi. Con il successivo governo Berlusconi erano riprese le inutili e ridicole riunioni con 40 o più delegazioni delle parti sociali. Sulla riforma delle pensioni Fornero, il sindacato non fu interpellato, mentre ebbe un ruolo sulla riforma Fornero del mercato del lavoro, soprattutto per il desiderio/necessità del PD di non affrontare direttamente l’argomento pena divisioni al suo interno. Letta, pur prodigo di riconoscimenti verbali, in concreto nulla concesse alle richieste sindacali.
Da una esclusione di fatto del sindacato da un confronto/trattativa almeno sui temi sociali che più lo riguardavano si è poi passati con il governo Renzi alla teorizzazione della sua esclusione.
In concreto non cambiava nulla rispetto alla situazione precedente, ma partendo da una supposta incapacità del sindacato di affrontare i problemi del mondo del lavoro e della società italiana si teorizzava l’autosufficienza del governo nell’affrontare questi temi, prescindendo da sindacati e dai corpi intermedi in generale. Non vi è dubbio che a volte, o spesso a seconda dei giudizi, sindacati e corpi intermedi hanno rappresentato un freno alle necessità di cambiamento, ma il rifiuto aprioristico di un confronto con loro significa una rinuncia ad una interlocuzione in cui i corpi intermedi portano non solo gli interessi dei propri rappresentanti ma anche un insieme di conoscenze utili e, a volte, fondamentali per affrontare i vari problemi.
Sbagliato sotto l’aspetto di una gestione democratica di una società complessa come la nostra, l’atteggiamento del governo Renzi avrebbe avuto un senso se si fosse dimostrato capace di sopperire con le proprie conoscenze e capacità al rifiuto di quelle che avrebbero potuto portare i corpi intermedi. Così spesso non è stato. L’esempio più lampante, ma non il solo, si è avuta con la gestione della “Buona scuola”. Difficile capire come un provvedimento che porta tra l’altro alla stabilizzazione di 100.000 precari sia stato gestito in modo da incontrare una così alta opposizione e provocare una crisi in uno dei settori di forza elettorale del PD. Un coinvolgimento del sindacato nella gestione del provvedimento, con le necessarie mediazioni, avrebbe certamente dato risultati diversi.
Altro esempio di errori derivanti anche dal rifiuto di un confronto con le parti sociali si è avuto nella legge di stabilità per il 2015 con l’adozione di due provvedimenti sbagliati e controproducenti, il Tfr in busta paga e l’aumento della tassazione sulla rivalutazione annua del Tfr e sui rendimenti dei fondi pensione. Il primo era errato concettualmente e sbagliato tecnicamente rispetto ai fini annunciati dato l’assoggettamento alla tassazione ordinaria nella formulazione finale e, infatti, non ebbe alcun esito. Il secondo, pur in un contesto di giusto aumento della tassazione sulle rendite, non distingueva il risparmio previdenziale dalle altre forme di risparmio. L’adozione di quest’ultimo provvedimento, inoltre, fece anche saltare un progetto portato avanti dal ministro del Tesoro sulla creazione di strumenti atti a consentire ai fondi pensione di usare parti delle proprie risorse per investimenti nell’economia italiana. Il livello di incompetenza e di autolesionismo del governo su questi punti fu notevole.
L’atteggiamento pregiudiziale del governo Renzi verso il sindacato è cambiato nella seconda parte della legislatura. La legge di stabilità per il 2016 risponde ad alcune richieste sindacali ripristinando in particolare la fiscalità di vantaggio sul salario di secondo livello. Successivamente, con la legge di bilancio per il 2017, si estenderanno i benefici fiscali al welfare aziendale e contrattuale. Sono misure importanti che mirano a incentivare l’estendersi della contrattazione aziendale e che favoriscono fiscalmente l’erogazione di servizi di welfare contrattuale, principalmente, ma non solo, in campo previdenziale e sanitario. Un ruolo importante questi provvedimenti lo hanno certamente avuto nella stipula dell’ultimo CCNL dei metalmeccanici e in numerosi contratti firmati dopo la loro approvazione. L’estensione di forme di welfare contrattuale è un risultato importante per i lavoratori, in particolare quando derivano dal CCNL perché unificano nei benefici tutti i lavoratori della categoria. Per il sindacato, parallelamente all’estensione di questi accordi, il compito di non dimenticare la necessità di una tutela di tutti i lavoratori non coperti da contratto e/o non appartenenti direttamente al lavoro dipendente.
E’ sulle pensioni che il mutato rapporto con il sindacato mostra la sua efficacia e utilità e che porta a risultati positivi per i lavoratori e per i pensionati. Dagli incontri informali e con singole parti sindacali si è progressivamente passati a trattative/confronti veri e propri che hanno portato ai due accordi sulle pensioni con il governo Renzi nel 2016 e con il governo Gentiloni nel 2017 sia pure quest’ultimo con le sole Cisl e Uil. Questi accordi segnano la riapertura di un orizzonte negoziale, dopo anni di chiusura, implicita prima ed esplicita poi.
Sul tema pensioni vi è stata una richiesta sindacale di modifiche alla legge Fornero fin dall’inizio della legislatura ma fino all’accordo del settembre 2016 il governo non ha mai dato risposte. L’unico intervento sul tema pensioni era stato quello provocato dalla sentenza 70 del 2015 della Corte costituzionale che dichiarava incostituzionale le norme della legge Fornero sulla perequazione. A prescindere dai giudizi giuridici era certamente una sentenza, come la definì un articolo della Voce, “irragionevole”, se non altro perché, se applicata integralmente, avrebbe comportato una spesa di 28 mld di euro. La non ragionevolezza di quella sentenza è stata, peraltro, confermata dalla successiva sentenza della Corte sul blocco della contrattazione nel pubblico impiego riconosciuta legittima per il passato e dal rigetto delle richieste di incostituzionalità del decreto governativo che dava solo parziale attuazione alla sentenza 70.
Gli accordi del 2016 e 2017 non rispondono certamente alle richieste di profonda revisione della legge Fornero fatta inizialmente dai sindacati (e tantomeno alla sua abolizione), ma affrontano positivamente alcuni dei problemi posti dalla Fornero o comunque esistenti nel nostro sistema pensionistico. Da ricordare che il problema immediato posto dalla Fornero, con l’abolizione delle “quote” per il pensionamento di anzianità, è stato affrontato con otto “salvaguardie” approvate dai governi Monti, Letta, Renzi, che hanno tutelato circa 170.000 lavoratori “esodati”.
Con l’accordo del 2016 si da una parziale risposta al problema dell’uscita flessibile dal mercato del lavoro con l’istituzione dell’Ape e dell’Ape social. La prima misura crea un canale di pensione anticipata ma con costi, distribuiti nel tempo, a carico del lavoratore. La seconda trasferisce questi costi allo stato per alcune categorie di lavoratori (disoccupati, lavori usuranti, particolari carichi familiari). All’Ape si affianca la RITA (Rendita Integrativa Temporanea Anticipata) che consente al lavoratore che ha maturato un montante in un fondo integrativo di utilizzare prima dell’età di pensionamento tale montante per poter usufruire di una rendita temporanea per il periodo che manca alla maturazione del diritto alla pensione. Come spesso accade dopo l’approvazione parlamentare di questi provvedimenti l’attuazione concreta ha incontrato difficoltà e ritardi che ora sembrano risolti o in via di risoluzione.
Unitamente a questi interventi l’accordo ha previsto nuove e migliori condizioni di accesso al pensionamento per le lavoratrici e i lavoratori occupati in mansioni usuranti e per i lavoratori precoci e il cumulo gratuito dei periodi contributivi. L’accordo contiene anche misure a favore dei pensionati: la parificazione della no tax area, l’estensione e l’aumento della mensilità aggiuntiva, l’impegno, a partire dal 2019, a un sistema di perequazione basato sugli “scaglioni di importo”, confermando a il ritorno al meccanismo già previsto dalla legge 388/2000.
Come previsto dall’accordo del 2016 il confronto è proseguito nel 2017. L’accordo è stato reso più difficile dalla prospettiva del D.M. di aumento automatico dell’età pensionabile in base all’aspettativa di vita. Nell’impossibilità affermata dal governo di non dare attuazione alla normativa vigente in materia (a partire dalle leggi Maroni/Tremonti del 2010) si è alla fine arrivati ad un compromesso con il blocco nel 2019 dell’innalzamento dei requisiti per la pensione di vecchiaia e anticipata per 15 categorie di lavoratori che svolgono attività gravose e lavori usuranti. L’importanza di questa norma sta nel riconoscimento del principio che i lavori non sono tutti eguali uguali e che queste differenze meritano di essere tenute in considerazione nella definizione dei requisiti pensionistici. L’accordo, recepito poi nella legge di bilancio, prevede anche la modifica del meccanismo di calcolo dell’aspettativa di vita, la proroga dell’Ape volontario fino al 31 dicembre 2019, l’ampliamento dell’Ape sociale con un riconoscimento del lavoro di cura e dei carichi familiari per le lavoratrici, l’equiparazione della tassazione dei fondi pensione per i dipendenti pubblici a quella dei dipendenti privati.
I due accordi oltrea segnare una ripresa del dialogo tra governo e sindacati interrompono un trend ventennale di interventi solo negativi in campo pensionistico. Per l’insieme dei provvedimenti nelle due leggi di bilancio il governo ha stanziato per il triennio 2017/19 più di sette miliardi di euro.
La legislatura si chiude, quindi, in modo diverso da come era iniziata e da come si era caratterizzata nella prima fase del governo Renzi. E’ ripreso il dialogo, sia pure non scevro di difficoltà, tra governo e parti sociali e vi è l’impegno a proseguirlo. Vedremo nella prossima legislatura e con i prossimi governi se questo impegno sarà mantenuto.
Un tema su cui si è progressivamente affermato un dialogo con i corpi intermedi è quello della lotta alla povertà. Nel nostro sistema di welfare mancano adeguate prestazioni sociali atte a combattere situazioni di povertà. E’ un limite sottolineato da molti anni del nostro sistema di protezione sociale e che ha avuto in passato alcuni tentativi non riusciti di affrontarlo. L’ultimo è stata l’istituzione del SIA, Sostegno all’inclusione attiva, introdotto in via sperimentale nel 2013 e poi esteso all’intero territorio nazionale nel 2016.
Nella legge di stabilità per il 2016 grazie alle pressioni esercitate sul governo da parte dell’Alleanza contro la povertà, viene finanziato un Piano di lotta alla povertà su scala nazionale con la creazione del “Fondo per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale”. Il provvedimento per la prima volta contempla uno stanziamento strutturale volto alla creazione di un reddito minimo d’inserimento, che, anche se insufficiente in termini di risorse, costituisce un primo positivo passo. “L’Alleanza contro la povertà”, nata alla fine del 2013, raggruppa un insieme di soggetti sociali, rappresentanze dei comuni e delle regioni, enti di rappresentanza del terzo settore e sindacati che hanno deciso di unirsi per contribuire alla costruzione di adeguate politiche pubbliche contro la povertà assoluta nel nostro paese.
Grazie al dialogo e al confronto tra governo e l’Alleanza il governo presenta in Parlamento la legge delega che istituisce dal 1° gennaio 2018 , in luogo del SIA, il Reddito di inclusione (ReI), una prestazione destinata nelle intenzioni del governo a diventare lo strumento unico nazionale di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale. La delega è stata varata dal Parlamento il 15 marzo 2017. Il via definitivo al decreto legislativo è avvenuto con il CdM del 29/08/2017. Il 14 aprile si è svolta a Palazzo Chigi la cerimonia di firma del Memorandum d’intesa sul Reddito di Inclusione, con il Presidente Gentiloni, il Ministro Poletti e l’Alleanza contro la povertà. Il Memorandum definisce precisi impegni circa il profilo degli interventi da realizzare in attuazione della Legge delega per il contrasto alla povertà, a cominciare dal Reddito di Inclusione.
Con la legge di bilancio per il 2018 è previsto un ulteriore stanziamento per finanziare il Rei di 300 milioni nel 2018, di 700 nel 2019 e di 900 a regime, che si aggiunge ai circa 1,8 miliardi già previsti a legislazione vigente.
Il ReI rappresenta una novità nel panorama delle politiche di contrasto alla povertà in quanto introduce su scala nazionale uno strumento strutturale ed organico a vocazione universale di sostegno al reddito connesso con un percorso di reinserimento socio-lavorativo. La prestazione è condizionata alla prova dei mezzi e all’adesione a un progetto personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa con l’obiettivo di uscire dalla situazione di povertà.
Il ReI raggiungerà entro un anno circa 700 mila famiglie, le più povere, corrispondenti al 2,7 per cento del totale. La spesa relativa per il 2018 sarà di circa 2 miliardi (per una media mensile di circa 240 euro a nucleo). Secondo l’Alleanza per la Povertà ne servirebbero almeno sette miliardi per accontentare tutti. Mancano quindi circa 5 miliardi. Si tratta quindi solo di un primo passo per mutare la particolarità del nostro welfare di essere tra i meno redistributivi dell’Unione Europea, con l’adozione di politiche di contrasto alla povertà, essenziali in una fase di polarizzazione della distribuzione dei redditi.
Tuttavia è un passo concreto che ha bisogno solo di essere implementato.