Non c’è stata molta informazione nei mass media di un evento che ha riguardato più di 4 milioni di lavoratori, quanti sono i dipendenti pubblici in Italia. Tra il 17 e il 19 aprile scorso si sono svolte le elezioni dei rappresentanti sindacali dell’area della Funzione Pubblica e di quella della Scuola. I dati definitivi, ministero per ministero, nella sanità, negli enti locali e regionali e quant’altro attiene all’Amministrazione Pubblica li sapremo tra qualche settimana, anche perché per il meccanismo in vigore di intreccio tra voti ottenuti e iscritti certificati, il conteggio dei rappresentanti è molto articolato. Ma almeno due dati, molto significativi, sono definitivi e riguardano l’affluenza al voto e come questo si è distribuito tra le sigle sindacali in competizione.
Entrambi sono dati inequivocabili. L’affluenza si è attestata complessivamente intorno all’80% degli aventi diritto. Stessa percentuale hanno registrato CGIL, CISL e UIL in fatto di preferenze. Si comprende la soddisfazione dei dirigenti di queste confederazioni, dato che sia il contesto generale, sia le vicende contrattuali dei vari settori non rappresentavano quel tappeto rosso che tutto rende facile. Ci sono variazioni minime sul piano geografico (Nord, Centro, Sud; grandi e piccole città; professioni alte e basse) e anche quelle che si profilano tra le tre confederazioni – qui a vantaggio di una, lì a vantaggio di un’altra – non mettono in ombra il messaggio: non c’è sfaldamento della tenuta del sindacalismo confederale, ma anzi un miglioramento. La minaccia del sindacalismo corporativo ed autonomo, spesso enfatizzata dalle cronache, non viene confermata dalle urne.
Questa tornata elettorale è avvenuta a pochi giorni di distanza dalle elezioni politiche, ma il segno è decisamente differente. Se il voto del 4 marzo è risultato marcatamente protestatario, anti casta e in definitiva paralizzante, quello verso il sindacato è stato una conferma dell’egemonia della confederalità e quindi della solidarietà, del suo radicamento sociale senza grandi divaricazioni territoriali o professionali, della corrispondenza tra aspettative e risultati che, visti i tempi, non poteva essere data per scontata. Se a ciò si aggiunge che nel settore privato – dove la misurazione della rappresentatività è diluita nel tempo e quindi con dati più frammentati – le iscrizioni al sindacato, nonostante la crisi, non sono complessivamente diminuite per le tre confederazioni storiche, si può dire che il sindacato è con il lavoro (tautologia non sempre riconosciuta ultimamente), mentre è dubbio che nel sistema dei partiti ci sia chi possa dire concretamente altrettanto.
Crolla, in particolare, la teoria della disintermediazione, sulla base della quale si era estesa la convinzione che l’interpretazione della società, dei suoi umori, delle sue attese, delle sue speranze potesse essere realizzata dalla politica senza il contributo delle associazioni di ogni tipo (sociali, economiche, educative, professionali, sportive, ecc.). Una visione esasperata da molta letteratura storica sul “primato della politica” e da sovrabbondante e più recente esaltazione delle votazioni on line. Per costoro, i corpi intermedi sono considerati complessivamente inadeguati a capire la “società liquida.” Si è scambiata la difficoltà, per tutti, della comprensione dei mutamenti epocali che si stanno sedimentando nella popolazione, con una presunta volontà dei rappresentanti sociali di voler conservare l’esistente, gli spazi di potere acquisiti, le categorie interpretative del passato.
Un crollo salutare, specie per la piega che ha preso il sistema politico italiano da almeno 25 anni. Ci provò a praticare la disintermediazione il primo Governo Berlusconi, considerando tutta l’esperienza della concertazione (propria del periodo 1983-1994) come un orpello impedente la gestione “manageriale” dello Stato. Per la verità, si ricredette abbastanza in fretta, ripiegando sulla pratica degli accordi separati, quindi con un riconoscimento del ruolo del sindacato confederale, anche se nella logica del “con chi ci sta”.
Anche Renzi ha avuto la debolezza di considerarla la via più veloce del riformismo. E non potendo esporre il PD alla pratica degli accordi separati, ha del tutto evitato la fatica di confrontarsi con l’insieme del sindacalismo confederale. Clamorosa è stata la vicenda della riforma della scuola: una buona idea, gestita malissimo, tanto che con il Governo Gentiloni si è corso ai ripari, coinvolgendo il sindacato. La disintermediazione, però, affascina anche i nuovi soggetti politici egemoni, come la Lega e il Movimento 5 Stelle, per cui è tutta una cultura politica che deve ritarare con nuova consapevolezza le proprie visioni nel rapporto tra cittadini, espressioni della società civile, partiti. La democrazia, anche nel tempo del web, per essere efficace deve fondarsi sul consenso partecipato, discusso, condiviso.
Il protrarsi per un quarto di secolo della frivolezza della disintermediazione non è soltanto responsabilità delle classi dirigenti della politica italiana. Anche il sindacalismo confederale ha le sue, attenuate dalla flagellazione delle crisi economiche del nuovo secolo, che lo ha costretto alla difensiva. Ma ciò non lo dispensa dal porsi il problema cruciale della rappresentanza di tutto il mondo del lavoro. Anche i giovani che sono arrivati a migliaia al Concertone del Primo Maggio, organizzato da CGIL, CISL e UIL, pensano che dal 2 maggio nessuno si occuperà delle loro prospettive di studio e di lavoro. E’ enormemente difficile riportare ad unità il mercato del lavoro, sempre più frantumato dall’introduzione delle nuove tecnologie e da norme inadeguate. Ma se non è il sindacato a fare lo sforzo per superare difficoltà e ritardi, chi dovrebbe farlo?
Né deve fare l’errore – e in questi giorni si sono palesate tante tentazioni – di cullarsi sugli allori. Uno dei modi per allargare gli spazi della rappresentanza è quello di ridare significato all’unità sindacale. E’ da tempo archiviata come questione strategica e quando si realizzano vertenze o iniziative assieme, ci si guarda bene dal considerarla un valore aggiunto. Ora che anche lo spaccato più litigioso, quello metalmeccanico, ha attenuato i toni, c’è da augurarsi che ritorni un’attenzione e un sentimento meno formali e più sostanziali verso la prospettiva dell’unità sindacale. Tutto il mondo della rappresentanza dei corpi intermedi ne trarrebbe un vantaggio ed un incoraggiamento per un autonomo rapporto con il sistema politico.
Infatti, con più unità ci sarebbe anche più autonomia sostanziale della rappresentanza sociale. Il sistema politico è in una fase di grande scomposizione e ricomposizione. Ciò non solo per inadeguatezze delle sue classi dirigenti ma perché è profonda la trasformazione della società ed interpretare e orientare le tendenze non è mestiere facile. Non a caso l’andamento del voto è ondivago; è la domanda (i votanti) che sceglie, per le ragioni più varie, l’offerta (i partiti), ma senza fidelizzazioni e radicamenti. Con corpi intermedi più solidi e propensi più a dare senso alle loro richieste che a far prevalere le loro identità, anche il sistema politico potrà trovare con maggiore rapidità un assetto meno precario e più netto, tra chi è “con e per” il lavoro e chi no.
Elezioni RSU 2018