Il quadro presentato da Orioli sul “lavoro ai tempi di Blade Runner” è così sconvolgente che deve scuoterci tutti: deve imporci a pensare ed agire in termini nuovi con coraggio e mente aperta.
La sfida riguarda tutti quelli che hanno responsabilità per influire su questo futuro: dai decisori pubblici, agli imprenditori, alle organizzazioni sindacali, fino agli operatori del diritto. La discussione avviata al Sole 24 Ore è un’occasione preziosa per un confronto aperto e non ideologico su questi temi.
Il cambiamento delle forme del lavoro è così profondo che serve un ripensamento di tutte le regole che devono governarle; le regole legislative ma anche quelle contrattuali.
L’impatto delle nuove tecnologie digitali sulla quantità del lavoro è incerto; probabilmente sono esagerate, come ritiene anche l’OCSE, le previsioni che annunciano a breve la distruzione di maggior parte dei lavori tradizionali. Ma l’impatto è destinato a crescere. I lavori su piattaforma, quelli della Gig Economy che sono un esempio estremo di lavoro “any time any where”, sono già esplosi in tutto il mondo. In California, che spesso anticipa alle tendenze dell’innovazione, già 400.000 autisti di Uber si sono mobilitati e hanno fatto causa alla piattaforma aziendale. E le stime parlano di oltre 14 milioni di lavoratori digitali già attivi negli USA.
In ogni caso la diffusione di questi lavori sta mostrando la inadeguatezza non solo di singole norme giuridiche ma delle stesse categorie fondative del diritto del lavoro, compresa la distinzione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato. Non si tratta di una ipotesi avanzata da giuristi “indecisi”; risulta dalle decisioni dei tribunali di vari paesi chiamati a giudicare sulla natura di questi lavori e sulle tutele applicabili.
I giudici europei, come quelli di Common Law, si dividono fra quelli che cercano di includere i lavori della Gig economy nell’ambito della subordinazione per riconoscere loro i relativi diritti e chi viceversa rileva la presenza prevalente di tratti di autonomia. Ma tutti rilevano la novità di tali fattispecie, dovuta al fatto che esse presentano tratti misti di autonomia e di subordinazione. Non a caso alcuni giudici, specie di Common law, evitano di inquadrare i loro casi nelle due categorie tradizionali e si concentrano sulla necessità di rispondere ai bisogni di tutela di questi lavoratori (tutela contro gli infortuni, standard minimi di salario e simili).
I casi di Uber e Foodora enfatizzano una tendenza più generale. Come dice Orioli, ci sarà un po’ di autonomia nelle forme più avanzate di subordinazione e un po’ di dipendenza nei lavori autonomi inventati dalla rete.
Sono convinto da tempo che per cogliere bene questa tendenza e darvi risposte adeguate occorre guardare più alle esigenze di tutela dei nuovi lavori (senza dimenticare quelli vecchi) che alle categorie tradizionali.
È una pista di ricerca già avviata anche da noi. Si tratta di ricercare una base comune di regole che risponda alle esigenze fondamentali delle persone che lavorano, ispirata agli standard del “decent work” fissati dall’ Organizzazione Internazionale del Lavoro.
La variabilità dei lavori creati dall’ economia digitale sconsiglia soluzioni legislative affrettate e generali. Non a caso i legislatori di altri Paesi, come quello francese, hanno fornito una risposta parziale, concentrata su alcune tutele essenziali da garantire ai lavoratori digitali, senza pretesa di fornire definizioni legali. La scelta di creare categorie intermedie, come i worker britannici e i lavoratori economicamente dipendenti variamente definiti in Spagna, Germania e Italia, ha incontrato non poche difficoltà di applicazione.
Analoga difficoltà si incontra oggi nella definizione degli inquadramenti giuridici dei vari lavori. La diffusione della intelligenza artificiale cambia il contenuto e il concetto stesso di mansioni, perché altera il rapporto fra uomo e macchine intelligenti nello svolgimento delle prestazioni
Le trasformazioni, economiche e sociali in corso, creano incertezze, ma aprono anche grandi opportunità per la organizzazione del lavoro e della produzione. Queste opportunità possono essere facilitate da politiche adatte e da regole nuove; ma potrebbero essere ostacolate se si volesse riportare indietro l’orologio delle riforme alla normativa del ‘900.
Credo che la responsabilità prima per ricercare nuove regole spetti alle parti sociali, perché la contrattazione collettiva è più adatta della legge a sperimentare soluzioni innovative e ad adattarle alla mutevole realtà della nuova economia e dei nuovi lavori.
Sperimentazioni interessanti non mancano nella recente contrattazione aziendale su vari aspetti: dalla misurazione della produttività, al welfare integrativo, alla regolazione della mobilità. Ma siamo solo all’inizio. Anche la contrattazione al pari della legge, deve rinnovarsi se vuol essere in grado, come auspica Orioli, di “contrattualizzare la stessa tecnologia”.
Per andare avanti su questa strada serve fantasia e coraggio delle parti sociali; ma serve anche un quadro di regole certe. Quelle individuate dall’ accordo del 9 marzo 2018 fra Confindustria, CGIL, CISL e UIL sono importanti. Ma le regole fondamentali su questi temi andrebbero condivise in tutti i settori. E sarebbero tanto più utili per guidare l’attività delle parti nel turbolento mare della quarta rivoluzione industriale, se fossero validate e generalizzate dal legislatore.
(*) da Il Sole 24 Ore 20/04/2018