Che sta succedendo? Forse, come molti dicono, una crisi del sistema istituzionale. La scomposizione sociale, con tutte le sue contraddizioni, ha contaminato la politica, i partiti, le culture dell’una e degli altri. Fino ad arrivare ad una discussione pubblica e di massa della parte più delicata della Costituzione, quella che riguarda gli equilibri tra i poteri istituzionali. Fino a mettere in discussione ruolo e prerogative della più alta carica dello Stato. Fino a ventilare la sconsiderata richiesta di mettere sotto accusa Mattarella per alto tradimento.
Non sono sicuro, ovviamente, ma spero che i fautori e vincitori del no al referendum sulla riforma costituzionale – specie di sinistra, specie di cultura democratica – si stiano almeno chiedendo se questa deriva non sia figlia degenere di quella opposizione alle modifiche proposte. Come spero chetutti quelli che hanno attaccato e cannoneggiato qualsiasi ipotesi di cambiamento costruttivo che i Governi di questi ultimi anni hanno prodotto, facciano autocritica per gli effetti che hanno prodotto: la nascita di mostri che solo ora hanno capito che questi mostri mettono a rischio e possono far saltare il Paese, compresi loro.
La via salvifica delle nuove elezioni politiche temo che risulterà, immediatamente dopo il voto, del tutto inefficace. Il popolo, oltre ad essere socialmente scomposto, sarà ancor più disorientato. Il sistema dei partiti è attrezzato soltanto a riproporre sé stesso e speriamo che l’abuso di populismo che ha contrassegnato le parole d’ordine che si sono contrapposte non risulti bulimiaco. Questo è al momento lo scenario più prevedibile, sia per i tempi brevi della scadenza elettorale che per la reiterazione di una legge elettorale che sancisce i perdenti, i semi perdenti, i semi vincenti ma non il vincente. Di fronte a questa prospettiva, c’è da farsi cadere le braccia. Ma, come disse Benedetto Croce al giornalista che gli chiedeva l’opinione sullo stato del Paese in pieno avvio del fascismo, “se non fossi sicuro che non è utile a niente, dovrei dirle che sarei pessimista”.
C’è stato un altro momento oscuro per l’Italia intorno agli inizi degli anni 90 del secolo scorso. Si stava sfaldando la prima Repubblica sotto l’ondata di stagflation: disoccupazione diffusa e alta inflazione da molti anni falcidiavano i bilanci delle famiglie, delle imprese e quello dello Stato. Le istituzioni reggevano, ma i partiti di Governo – per di più inquinati da una devastante corruzione – si stavano spegnendo. Inoltre, la politica si era sfaldata nel fronteggiare il fenomeno delle Brigate Rosse e soprattutto il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. La vera maggioranza dei Governi di emergenza di allora – prima quello di Amato, poi quello di Ciampi – fu la società civile nel suo complesso e le forze sociali del lavoro e delle imprese in prima linea. Queste si rimboccarono le maniche e assecondarono, con accordi difficili e sofferti, l’azione di risanamento di quei Governi. In un paio d’anni, uscimmo dai guai.
Il confronto tra quel tempo e l’attualità non è possibile. La crisi ora è delle istituzioni, quindi quasi più grave di quella dei partiti. Ma l’economia è in crescita, sebbene esposta ai contraccolpi dello scadimento della fiducia dei mercati finanziari internazionali e a rischio di non poter godere dell’ombrello protettivo della BCE. Stanno riprendendo gli sbarchi degli immigrati e questo è manna per gli xenofobi, ma le forze sociali non sono sulla difensiva come allora. E’ su queste differenze che occorre contare per non farsi travolgere dagli eventi.
E’ il momento che i corpi intermedi facciano valere la loro vitalità. Quella di tutte le migliori espressioni della società civile, dal sindacalismo dei lavoratori e delle imprese, al volontariato; dal cooperativismo al mondo della scienza e della ricerca; dall’associazionismo di base alle organizzazioni assistenziali. Non vengono da anni tranquilli. Sia per proprie responsabilità, sia per una mal interpretata visione dell’egemonia della politica. Ma il passato non deve alimentare rancori. Vanno valorizzate, in questa fase, le loro capacità di interpretazione delle realtà, di vicinanza ai bisogni delle persone, di legami ideali ed organizzativi sia tra gli anziani che tra i giovani e soprattutto di connessione tra le specificità che rappresentano e gli obiettivi più generali del Paese.
Ricomporre ciò che è scomposto è l’esigenza fondamentale. Tenere assieme il “Paese che corre”, quello che esporta, che innova, che s’ingegna, che studia con il “Paese che arranca”, che soffre la perdita o la mancanza del lavoro, che non accede più al welfare, che teme che lo straniero immigrato sia il suo concorrente più insidioso è l’obiettivo fondamentale. Specie a riguardo dei giovani. La segmentazione elettorale è netta. I populisti ne conquistano a legioni, agitando un mix di paure verso lo straniero, euroburocrate o migrante che sia, e di miraggi, quei soldi in tasca senza lavorare. Il migliore associazionismo può ricostruire un rapporto con questa generazione disorientata, fondato sul coinvolgimento attivo, sull’esempio di impegno civile, sul modello del lavoro quale unico cammino di riscatto e realizzazione, condito di tanta dignità e poco clamore.
Invece, sta prevalendo la via corporativa alla ricomposizione di queste condizioni sempre più divaricanti (flat tax per il Nord e reddito di cittadinanza per il Sud). Una via fasulla; non ricompone un bel niente, al meglio placa per un po’ domande esistenti ma grezze, lascia slegate le esperienze. Nulla a che vedere con il solidarismo, la necessità di dare corpo ad una comunità. Cioè ad una ricomposizione che tiene assieme convenienze e valori.
Per questo è decisivo il supporto dei corpi intermedi, che anche nelle forme più approssimative e meno organizzate hanno in sé il germe dello stare assieme, antitetico alla solitudine massificata dall’uso e l’abuso dei social. E la loro capacità di orientamento si deve esercitare nel modo più concreto possibile: stare nell’Unione europea per cambiare l’Europa, altro che uscita dall’euro in una “notte buia e tempestosa” per dirla con Charlie Brown, ma pensando a Savona. Meglio dare lavoro decente che soltanto assistenza, per la dignità della persona. Un welfare senza privilegi ma fortemente protettivo della famiglia e degli emarginati. Non sono soltanto parole d’ordine ma traiettorie di azioni tra loro coerenti.
Se parallelamente ad una campagna elettorale che si annuncia tra le più divisive della storia patria, si potesse assistere all’affermazione di una soggettività propositiva dei corpi intermedi tali da mobilitare le coscienze sulla strada della ricomposizione del tessuto sociale più produttivo e più bisognoso del Paese, si potrebbe sperare in un vero processo rigenerativo delle idee e dei protagonisti. Esso, più di ogni altro marchingegno, potrebbe fermare e contrastare l’avvitamento in basso delle relazioni individuali e collettive e proporre una risalita verso livelli di nuova civiltà, quella di stampo europeo tanto contrassegnata nel corso dei secoli da quella italiana.