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Insegnare, mettendolo in pratica

Pierre Carniti è stato certamente uno dei maggiori protagonisti del sindacato italiano del dopoguerra. Tra questi quello a cui si devono alcune delle scelte determinanti nei fatti che hanno caratterizzato la storia dell’organizzazione dei lavoratori dagli anni ’60 in poi, come la strategia dell’autunno caldo, l’autonomia e l’unità sindacale, la svolta dell’84 sulla scala mobile.  Un ruolo protagonista che è stato spesso maggiore della forza rappresentata, grazie alla sua visione del sindacato, al suo carisma e alla determinazione con cui sosteneva le sue idee. Carniti visse la vicenda sindacale in piena libertà, mettendosi sempre direttamente in gioco, forzando e sfidando gli equilibri costituiti per puntare più in alto. Ciò che rendeva credibili le sue posizioni, considerate spesso radicali, era l’estrema coerenza con cui le proponeva, sempre disponibile e pagare di persona, fino al paradosso. Mentre ha sempre avuto chiaro il valore irrinunciabile e determinate dell’azione collettiva, e pur partecipando attivamente alle aggregazioni che, di volta in volta, si formavano per rinnovare il sindacato, non ha mai costruito proprie correnti, non ha mai contrattato per questa via spazi di potere nel sindacato e fuori, ha sempre lottato a viso aperto conquistandosi lo spazio sul campo. Lo dimostra anche il modo totalmente disinteressato con cui ha lasciato la Cisl all’apice del suo ruolo nel Paese, al termine del mandato di segretario generale nel 1985, e i suoi rapporti successivi con il sindacato, e nell’impegno politico.

Un protagonista del conflitto

Nella visione sindacale di Carniti il conflitto è sempre stato il fattore trainante dell’azione collettiva. Mai il conflitto fine a sé stesso, ma lo strumento determinante per dare alla contrattazione incisività ed efficacia. “Non basta avere ragione, bisogna farla valere” era il suo slogan preferito. Carniti ha interpretato in questo modo la strategia contrattuale della Cisl, considerata da molti suoi dirigenti una strategia moderata, responsabile e di segno anticomunista, e questo gli procurò non pochi malintesi e conflitti aperti, che lui seppe superare con determinazione e chiara visione del futuro. Carniti fu un grande contrattualista, dotato di visione, spregiudicatezza e realismo, che sapeva sempre individuare la via da seguire, anche nelle situazioni più difficili. Per questo sapeva, con grande capacità, mettere assieme obiettivi ambiziosi e lotte durissime che si concludevano con accordi positivi. Ciò perché non perdeva mai il filo strategico di una vertenza e questo gli consentiva di saper dosare, con intelligenza anticipatrice, pregiudiziali, rotture, scioperi e intese al momento giusto. La “maturazione” della vertenza era il suo punto di riferimento. Per questo Carniti non ha mai fatto lotte disperate, votate a generose sconfitte, e se si è trovato in questi frangenti è stato per riparare gli errori di altri, come a Mirafiori nel 1980. Un esempio significativo fu il suo ruolo nel contratto dei metalmeccanici del 1969. Ricordo che ai primi di settembre di quell’anno la Fiat mise in cassa integrazione a zero ore alcune decine di lavoratori con l’accusa di aver perpetrato violenze in fabbrica e con il chiaro intento di licenziarli. La segreteria unitaria Fim-Fiom-Uilm che si riunì in quei giorni non sapeva come rispondere, quando Carniti propose con forte determinazione di porre subito al governo una pregiudiziale: o quei lavoratori rientrano in fabbrica o partono subito gli scioperi per il contratto. Il ministro del lavoro Donat Cattin convocò a Roma il presidente Fiat Gianni Agnelli e si raggiunse l’accordo con il rientro in fabbrica di quei lavoratori. Questo episodio fece un certo scalpore tanto che la possibilità di reintegro fu inserita nel successivo Statuto dei lavoratori e divenne il famoso Articolo 18, che Carniti ha sempre considerato “una misura eccezionale in un periodo eccezionale”, con buona pace degli attuali difensori a oltranza in un mondo del lavoro totalmente cambiato. 

Un interprete appassionato dell’autonomia e dell’unità sindacale

Credo sia stato l’amore per il sindacato e per il suo ruolo a servizio dei lavoratori a impegnare Carniti in direzione dell’autonomia e l’unità sindacale. La sua ambizione era quella di costruire un sindacato come soggetto politico autonomo, in grado di rendere più efficace la promozione dei diritti dei lavoratori e vivificare la nostra democrazia.  Quando, a metà degli anni ‘60, si avviò il dibattito sull’unità, la soluzione prevalente era quella di un sindacato unitario di centrosinistra, omologo della maggioranza politica di governo, e Carniti si trovò inizialmente da solo a sostenere la necessità di un dibattito aperto anche ai comunisti, forzando in tal senso gli equilibri politici. L’incompatibilità tra incarichi sindacali e politici era perciò la condizione per un’autonomia libera da condizionamenti di partito. Carniti dovette sostenere una doppia battaglia. Durissima all’interno della Cisl, che arrivò fin quasi a una scissione, con coloro che interpretavano l’unità come una svendita del sindacato ai comunisti e con lo stesso Pci che intravvedeva nel processo unitario una rimessa in discussione dell’egemonia (presunta) del partito sulla classe operaia. Mentre nei confronti della Dc, Carniti, tramite anche il consenso di Moro, sarebbe riuscito a superare le difficoltà e ad arrivare all’unità, la Cgil, fortemente condizionata nella sua componente comunista dal Pci, divenne l’anello debole che, sia a livello confederale che nei metalmeccanici, non ebbe la forza di completare il processo. Tuttavia, Carniti non rinunciò mai a ricercare rapporti unitari nell’autonomia, ma questo non gli risparmiò ulteriori tensioni, conflitti e rotture, soprattutto con il Pci. La mancata unità consentì la riedizione di un pluralismo sindacale a bassa tensione innovativa e ciò ha contribuito, a mio avviso, a non percepire adeguatamente la rivoluzione tecnologica e organizzativa che ha investito imprese e lavoro negli ultimi anni.

La svolta dell’84: la grande politica riformista di Carniti

La svolta neoliberista negli anni’80 della politica economica mondiale determinò nella fragile economia italiana una crisi inflazionistica con effetti fortemente negativi nella ripartizione del reddito e nel potere d’acquisto dei lavoratori. Questa situazione indusse la Cisl di Carniti, auspice le analisi di Ezio Tarantelli, a intervenire per abbassare le aspettative di inflazione e difendere così i salari reali. La scelta fu quella di concordare con il governo Craxi un raffreddamento della scala mobile bloccando alcuni punti maturati. Nella sinistra si sommarono due motivi di opposizione: la difesa acritica della scala mobile e lo scontro con il governo Craxi, per cui si determinò uno scontro durissimo con una sovrapposizione di motivi sindacali e politici, culminato nel referendum dell’85, perso inopinatamente dal Pci. Carniti pagò sulla sua persona questo scontro, ma la durezza del conflitto politico non oscurò il carattere squisitamente sindacale della scelta della Cisl, che aprì un grosso problema riformista nella sinistra italiana, purtroppo frettolosamente accantonato.  Questa fu la grande vittoria di Carniti, certificata poche settimane dopo al Congresso della Cisl con la presenza di tutti i segretari di partito, Pci compreso, cosa mai avvenuta nella storia del sindacato italiano, e dall’efficace difesa dei salari reali con la riduzione del tasso d’inflazione di dieci punti in un anno. Purtroppo, questo lascito riformista di Carniti non è stato raccolto e sviluppato dal sindacato e dalla sinistra. Noi della Cisl, soprattutto per responsabilità di chi l’ha guidata, non siamo stati all’altezza di tale ruolo e abbiamo preferito un comodo riadattamento dei rapporti unitari a scapito del rigore strategico e innovativo dell’azione sindacale. Nella Cgil è così prevalsa una pratica fondamentalista e burocratica della strategia dei diritti, ben diversa dall’interpretazione di Bruno Trentin che l’aveva ideata. Oggi, a distanza di tanti anni, possiamo constatare quanto pesi questo ritardo sullo stato di salute della sinistra e sui destini del nostro Paese.

Pierre e la mia esperienza sindacale

Il parere e le proposte di Carniti sono stati determinanti in alcune scelte fondamentali della mia vita sindacale. La mia andata nella Fim di Vicenza per favorire l’unità sindacale e il mio trasferimento nella Cisl del Veneto si devono a lui. Proposte impegnative, con conseguenze non sempre facili, ma che hanno dato senso e valore al mio essere sindacalista. Questa era la logica di Carniti, proporre obiettivi impegnativi agli altri come faceva nei confronti si sé stesso. In altre occasioni gli dissi anche dei no e non so se ho fatto sempre bene. Conobbi Pierre in occasione di un Consiglio generale della Fim che si tenne a Bardolino, sul lago di Garda a metà degli anni ’60, e rimasi positivamente impressionato per la passione e la determinazione con cui propose l’avvio del processo di unità sindacale con un dibattito che coinvolgesse l’intera Cgil. Trovai la proposta giusta e doverosa e aderii a essa con passione anche se da questa scelta iniziarono per me non pochi problemi nella Cisl veronese. Ciononostante, quelli furono anni di grande entusiasmo, dentro una Fim che era una fucina di idee, passioni, solidarietà operante. Capii in quella situazione cosa significa l’innovazione sindacale: avere delle idee, proporle con coraggio e lottare per affermarle, anche da posizioni di minoranza nella Cisl e nell’intero sindacato.  In questo contesto l’incontro con il ’68 ebbe un effetto ulteriormente generatore che produsse confronto, dialogo e qualche conflitto con le sue diverse espressioni, ma credo che il sindacato fu, in quegli anni, l’unico soggetto che seppe proporre a quel movimento una prospettiva riformista di cambiamento sociale. In quel periodo toccai con mano il ruolo di innovazione strategica di Carniti e l’importante funzione di ponte tra la nuova Cisl e quella tradizionale da parte di Luigi Macario, un altro sindacalista determinante per l’evoluzione del sindacato italiano che, a mio avviso, è stato troppo presto dimenticato. Il periodo successivo, scandito dai fatti che ho ricordato, l’ho vissuto con vari ruoli avendo sempre Carniti come punto di riferimento discreto ma sempre stimolante ed esigente, anche quando, lasciata la Cisl mantenne un rapporto con il Veneto nel periodo in cui si candidò al Parlamento europeo nel Psi, nella circoscrizione del Nordest. In tale occasione emerse in modo evidente la personalità di Carniti nel suo rapporto con la politica di partito in campagna elettorale. Un rapporto difficile perché il chiedere ai lavoratori e ai cittadini il voto era una sorta di inversione del suo legame precedente con loro, caratterizzato sempre dal dare più che dal ricevere, e credo che dipese anche da questo se Carniti non divenne mai un politico all’altezza del suo ruolo sindacale. Un atteggiamento che caratterizzò anche il suo successivo impegno nella fondazione, assieme a Gorrieri, del movimento dei Cristiano-sociali per il quale l’attenzione era tutta rivolta a favorire la costruzione di un nuovo rapporto tra cristiani e militanza a sinistra nel nostro Paese, al di là della ricerca del consenso organizzativo.

In conclusione, da Carniti ho imparato, tramite la sua concreta testimonianza, la dignità umana e sociale del sindacalista, un mestiere che richiede, impegno, passione, cultura, coraggio, responsabilità, capacità di immedesimarsi nelle condizioni dei lavoratori da rappresentare e disponibilità a pagare di persona. Nel modo che lui sapeva fare da singolare maestro: insegnare mettendolo in pratica.

 

*già Segretario confederale Cisl

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