Cosa unisce la garanzia unica sui depositi al centro del difficile completamento dell’Unione bancaria e la garanzia pubblica per i disoccupati europei simbolo per l’Italia del nuovo corso della nuova Europa sociale e inclusiva?
Il pregiudizio sfavorevole dei tedeschi, assai scettici nell’impiegare risorse europee senza adeguate rassicurazioni sull’efficienza nella loro gestione amministrativa.
In sostanza, uno stallo per entrambe.
L’idea di leggere le sofferenze (umanissime) del mercato del lavoro un po’ con le lenti usate finora per guardare gli Npl, le sofferenze bancarie (contabili), aiuta a comprendere meglio quanto il modello delle politiche attive dell’Italia sia lontano dallo standard europeo. E quanto il pregiudizio sfavorevole dei nostri partner sull’efficacia dei nostri sistemi di placement rende la posizione italiana difficile anche nella fase di abbandono dell’idea dell’Europa matrigna per la costruzione di quella più umana, sociale e inclusiva.
Probabilmente, se qualcuno volesse porvi la giusta attenzione aiuterebbe a rendere meno violenta e astrusa la campagna elettorale sul tema-totem del lavoro. E a cogliere meglio il punto vero. Ma non è aria.
Ormai è chiaro che il tema del lavoro come creazione di occupazione è affidato alla robustezza e durata della ripresa economica, l’argomento delle regole e dei diritti è solo esca per i talk show anche se appare predominante. Il lavoro inteso invece come gestione ottimale dell’incontro tra domanda e offerta e, soprattutto, come chance per chi non lo trova o lo ha perso (gli Npl del lavoro) diventa il vero anello mancante del riformismo italiano. Non che anche nell’ultima legislatura non si sia fatto qualcosa: è nata l’Agenzia nazionale per le politiche attive (Anpal), si è potenziato l’apprendistato, si cerca di introdurre un sistema sperimentale di alternanza scuola-lavoro sul modello tedesco, si tenta la strada degli Its e dei centri di eccellenza per Industria 4.0. Ma sono altrettante riforme calibrate su amministrazioni inefficienti o carenti e dotate di pochissime risorse, nonché vittime del conflitto mai risolto tra Stato e Regioni sulla materia strategica della formazione.
Se il tema lavoro è materia di appannaggio nazionale, la formazione è prerogativa regionale, con competenze in concorrenza sparse. La vera alternanza scuola-lavoro quindi finora si è tradotta di fatto in una incomunicabilità istituzionale a tutto danno dell’efficacia degli esperimenti messi in campo.
La novità dell’assegno di ricollocamento, la dote finanziaria per chi si metta alla ricerca attiva di un’occupazione, non ha retto la concorrenza del nuovo ammortizzatore sociale (Naspi) che ha sostituito l’indennità di disoccupazione: la cultura del sussidio passivo ha vinto ancora una volta sulla cultura dell’incentivo attivo a ricollocarsi.
Era solo una sperimentazione: poteva contare su 27mila candidati, hanno risposto in 2.700 e il 20% di questi ha ritrovato un lavoro. Non è stato pubblicizzato a dovere, non è stato condiviso a livello locale, sconta la diffidenza delle imprese, ma resta un risultato difficile da rendere strutturale. Anche se rappresenta il molto che c’è ancora da fare per cambiare la cultura profonda del lavoro non troppo lontana dall’idea del diritto “a prescindere” e del suo corollario applicativo che è l’assistenzialismo.
È anche per questo che le obiezioni tedesche alla (buonissima) idea italiana del sussidio mutualistico per i disoccupati europei troverebbero un robusto corredo nella nostra cattiva prassi nazionale. Senza contare che i tedeschi hanno anche allergia all’uso di fondi europei per le politiche attive che finanziano solo con fondi propri (1,5% a carico sia di lavoratori sia dei datori di lavoro) e con procedure lineari e fortemente gestite dal centro a fronte di uno stringente esame dei risultati sul campo dei singoli land.
Il modello tedesco resta quello di riferimento (e non è un caso se quel Paese ha ormai una disoccupazione fisiologica), ma è chiaro dai numeri quale sia la differenza di attenzione strategica al tema: in Germania ci sono 115mila persone dedicate ai centri per l’impiego, in Italia sono 7.500 e di provenienza dai vecchi uffici di collocamento e spesso con formazione non idonea e solo di recente aggregati alle Regioni grazie a una dote statale che ne ha garantito il passaggio amministrativo. Solo l’1,4% di chi trova lavoro passa da quei centri. Un’inezia. In Germania è la prassi normale rivolgersi a un centro per l’impiego, così come è prassi normale usare il canale dell’apprendistato come via d’ingresso al mercato del lavoro.
In Italia le riforme si sono rivelate ancora gracili: scontano la veduta corta delle campagne elettorali e l’impossibilità di fare scommesse – prima di tutto culturali – a medio lungo termine. C’è un verbalismo nel fissare gli obiettivi cui non seguono fattività finanziaria o amministrativo-istituzionale. I temi rimangono parole-simbolo da dibattito e la realtà resta altro (e altrove). E stavolta, purtroppo, non sembra molto diverso.
(*) da 24 ORE.it 15/01/2018