Il testo finale della legge di bilancio interviene su numerosi aspetti del sistema pensionistico. Direttamente sulla perequazione delle pensioni e introducendo un contributo di solidarietà sulle pensioni più alte, costituendo poi un fondo per il finanziamento della cosiddetta “quota 100” e per altri interventi.
Complessivamente gli effetti sul bilancio dello stato sono i seguenti:
Effetti finanziari Legge di bilancio.
Interventi sulle pensioni. Milioni di euro
|
2019 |
2020 |
2021 |
Perequazione* |
253 |
745 |
1.228 |
Contributo di solidarietà* |
76 |
80 |
83 |
Fondo “Quota 100” |
– 3.968 |
– 8.366 |
– 8.684 |
* Al netto degli effetti fiscali
L’intervento sulla perequazione e il contributo di solidarietà, non contemplati nel testo originario presentato in Parlamento, sono stati inseriti con il maxiementamento per ottenere la riduzione di deficit concordata con la Commissione. Il Fondo per quota 100, rispetto allo stanziamento originario ha subito un taglio di 2,732 mld nel 2019 e un incremento di 1,366 mld e di 1,684 mld nei due anni successivi.
Perequazione
L’accordo tra sindacati confederali e governo Renzi del settembre 2016, recepito nella legge di bilancio per il 2017, prevedeva che dal 2019 la perequazione sarebbe stata applicata con le regole previste dalla legge 388/2000, una perequazione applicata ascaglioni e non a fasce come quella in vigore dal 2014 al 2018. L’Inps, infatti, nelle pensioni erogate a gennaio ha applicato questa forma di perequazione e dovrà ora recuperare quanto dato in più.
La perequazione delle pensioni ha sempre attirato tutti i governi alla ricerca di risparmi. Si tratta infatti di una sommaelevata derivante dalla rivalutazione annua della spesa pensionistica pari a circa 265 mld (al netto delle pensioni sociali).
La differenza tra la perequazione modello legge 388/2000 e quella prevista dalla legge di bilancio è rappresentato in tabella
Percentuali di perequazione rispetto al tasso di inflazione
Minimo Inps |
fino a 3 |
tra 3 e 4 |
tra 4 e 5 |
tra 5 e 6 |
tra 6 e 8 |
tra 8 e 9 |
oltre 9 |
388/2000* |
100 |
90 |
75 |
||||
Legge di bilancio** |
100 |
97 |
77 |
52 |
47 |
45 |
40 |
* A scaglioni ** A fasce
Oltre che dalle percentuali la differenza deriva dal fatto la perequazione per fasce applica un solo valore di perequazione corrispondente alla fascia d’importo in cui ricade la pensione, mentre quella per scaglioni applica auna pensione più percentuali di perequazionein base ai diversi scaglioni in cui essasi colloca. Una pensione di importo compreso tra 4 e 5 volte il minimo Inps, nel primo caso sarà rivalutata complessivamente in base al77% del tasso di inflazione, col metodo a scaglioni avrà una rivalutazione del 100% per la parte fino a tre volte il minimo e del90% per la parte compresa tra tre e quattro volte il minimo.
La relazione tecnica stima i risparmi di spesa prodotti dalla legge di bilancio con la nuova perequazione. La stima è effettuata sulla base di un tasso di inflazionegià accertato per il 2019(1,1%) e di tassi di inflazionederivanti dal quadro di previsione della Nota di aggiornamento per gli anni successivi(1,4% nel 2020 e 2,2% nel 2021).
Si possono calcolare gli effetti sulle singole pensioni della perequazione modello Legge di bilancio rispetto a quella in base alla legge 388/2000.
Differenze nella perequazione tra legge 388/2000 e legge di bilancio
Tassi di perequazione: 1,1 nel 2019, 1,4 nel 2020, 2,2 nel 2021
|
Pensione 2018 |
Nuova pensione 2021 |
Differenza 388 / L. Bilancio |
|||
|
Lorda |
Legge. B. |
338/2000 |
Mensile |
Annua |
Cumulata nel triennio |
fino a 3 |
1522,3 |
1.594,9 |
1.594,9 |
|
|
|
tra 3 e 4 |
1.780,0 |
1.862,3 |
1.863,7 |
– 1,4 |
– 18,0 |
– 31,1 |
tra 4 e 5 |
2.300,0 |
2.384,2 |
2.406,0 |
– 21,8 |
– 283,5 |
– 496,4 |
tra 5 e 6 |
2.800,0 |
2.869,0 |
2.925,7 |
– 56,7 |
– 737,1 |
– 1.291,7 |
tra 6 e 7 |
3.300,0 |
3.373,4 |
3.443,5 |
– 70,1 |
– 911,0 |
– 1.597,2 |
tra 7 e 8 |
3.800,0 |
3.884,5 |
3.961,3 |
– 76,8 |
– 998,2 |
– 1.750,2 |
tra 8 e 9 |
4.300,0 |
4.391,6 |
4.479,1 |
– 87,6 |
– 1.138,5 |
– 1.996,9 |
oltre 9 |
6.000,0 |
6.113,5 |
6.239,7 |
– 126,3 |
– 1.641,4 |
– 2.880,6 |
Per pensionifino a tre volte il minimo INPSnon vi è differenza e la perdita è minima per le pensioni tra tre e quatto volte il minimo. Comincia a “pesare” per le pensioni superiori a quattro volte il minimo, per le quali il richiamo all’avaro di Molière del presidente Conte appare del tutto fuori luogo, considerando che una pensione pari a quattro volte il minimo (2.030euro) equivale a una pensione netta di 1.600 euro.
Le perdite cumulate nel triennio per diversi importi di pensione sono riportati nell’ultima colonna, mentre i valori riportati nella penultima rappresentano le “perdite” annuali che i pensionati subiranno ogni anno a partire dal 2021. Il “tosaggio” è certamente inferiore a quello effettuato da Monti nel 2012/13 (poi ridimensionato dall’intervento della Corte Costituzionale) e anche a quello di Letta nel 2014/18, ma non si tratta certo di pochi euro.
Contributo di solidarietà
In merito al contributo di solidarietà viene spontaneo dire che la montagna ha partorito un topolino e che con questo provvedimento è stata probabilmente seppellita ogni ipotesi di ricalcolo delle pensioni più elevate. Più volte uno dei vicepresidenti aveva affermato che il taglio alle pensioni d’oro avrebbe procurato almeno un miliardo di risparmio, la Relazione tecnica riporta una minore spesa per circa 80 milioni annui, nonostante che le percentuali del contributo siano piuttosto elevate. E’ la dimostrazione che spesso si parla senza conoscere i numeri. Il contributo di solidarietà colpisce poco più di 24.000 pensionati su di un totale superiore ai sedici milioni (gestioni Inps-Inpdap-Sport e spettacolo), tanti sono quelli con pensioni superiori a 100.000 euro, importo oltre il quale scatta il contributo. La Corte Costituzionale ha considerato incostituzionale il contributo introdotto dalla legge 201/2011 del governo Berlusconi, poi aumentato da Monti/Fornero, mentre ha rigettato le istanze contro quello introdotto dal governo Letta. Vedremo come giudicherà questa volta la Corte. Non vi sono i presupposti di nullità rilevati per il contributo Berlusconi considerato un tributo, ma vi è la durata, cinque anni, e le aliquote elevate, che potrebbero fare ritenere il provvedimento non corrispondente ai “criteri di proporzionalità e ragionevolezza” indicati dalla Corte in passate sentenze.
Decreto “quota 100”
Con il decreto viene creato,in via sperimentale per il triennio 2019-2021, un nuovo canale di uscita dal lavoro definito “pensione quota 100”. In realtà non è una “quota” sul modello di quelle abrogate dalla legge Fornero, ma la possibilità di andare in pensione anticipata al raggiungimento di un’età anagrafica di almeno 62 anni e di un’anzianità contributiva minima di 38 anni. I due requisiti sono congiunti,non si ha pertanto diritto alla pensione con combinazioni tipo 63/37 o 61/39 che pure hanno come somma 100. Nel triennio sperimentale poi, “quota 100” non è fissa ma probabilmente aumenterà nel 2021 dato che il decreto stabilisce che mentre il requisito contributivo resta fisso, il requisito di età anagrafica è adeguato agli incrementi alla speranza di vita secondo la normativa vigente. Non vi è dubbio che la legge Fornero con l’abolizione drastica della pensione di anzianità, operata oltretutto in un periodo di crisi economica, abbia causato problemi notevoli. Del resto otto “salvaguardie” stanno a dimostrarlo. Così come é vero che il sistema contributivo é molto rigido in tema di uscita dal lavoro dopo che la legge Maroni del 2004 ha eliminato la flessibilità in uscita introdotta con la legge 335.
Ma la strada scelta dal governo, a partire dalla validità triennale, non appare convincente. Non reintroduce la flessibilità nel sistema contributivo, non opera in base alla “gravosità” del lavoro, come fatto ad esempio con l’Ape sociale, discrimina fortemente tra generi e settori di lavoro.
Il requisito di 38 anni taglia fuori dalla possibilità di accedere a quota 100 buona parte delle donne del settore privato che, secondo i dati Inps, hanno un’anzianità contributiva media di 25 anni, taglia fuori i lavoratori di settori come l’edilizia o alcuni settori dei servizi, in cui è difficile avere carriere continue, taglia fuori molti lavoratori del sud per le stesse ragioni.
E’ insomma, come lo era del resto la pensione di anzianità a 35 anni, una via di uscita riservata a una parte specifica del mondo del lavoro: pubblico impiego, uomini, lavoratori del nord.
La platea di potenziali aventi diritto, stimata in 450.000/480.000 lavoratori, poneva e pone un problema di spesa, come ha spesso sottolineato il presidente dell’Inps Boeri. Non sarebbero bastati i 6,7 mld inizialmente previsti, non basterebbero a maggior ragione i 4 mld stanziati in seguito al maxiemendamento per il 2019. Il decreto prevede quindi tutta una serie di misure volte a “scoraggiare” il ricorso a quota 100 in modo da contenerne i costi.
Sono reintrodotte le finestre di uscita, abolite dalla Fornero, madifferenziate tra settore privato e pubblico. Tre mesi per il primo, sei mesi per il secondo. Nel settore pubblico è poi previsto un preavviso di sei mesi.
C’é quindi una forte differenza tra i due settori aggravata dalla disposizione contenuta nel decreto che prevede che il trattamento di fine servizio (Tfr/Tfs) nel settore pubblico sia erogato non prima di 12 mesi dal raggiungimento dei limiti di età o di servizio(vecchiaia,combinato disposto con la legge214/2011). Considerando che già oggi il Tfr/Tfs nel settore pubblico, a meno di non essere inferiore ai 50.000 euro, è liquidato in un periodo di uno/dueanni, il lavoratore che esce con quota 100 dovràaspettare 7/8 anni per riceverlo. Situazione poco sostenibile e anche a forte rischio di costituzionalità (tema già sotto esame della Consulta). D’altra parte erogare il Tfr/Tfs ai lavoratori pubblici che optano per quota 100 subito, comporterebbe una spesa aggiuntiva almeno equivalente a quanto oggi stanziato per il Fondo quota 100.
Per superare il problema il decreto prevede la stipula di convenzioni con le banche per l’erogazione anticipata di parte o tutto il TFS/TFR da parte delle stesse. Resta il nodo, al momento ancora non risolto, su chi paga gli interessi e i costi dell’operazione, il lavoratore o la pubblica amministrazione. E’ chiaro che se l’obiettivo è “scoraggiare” i dipendenti pubblici a utilizzare quota 100 i costi non possono essere a carico dellostato. Se lo fossero oltre ad aumentare il numero di lavoratori che sceglierebbero questa via di uscita, e considerando che l’anticipo bancario non potrebbe essere limitato solo a questi ma dovrebbe essere esteso a tutti, resterebbero i problemi dei costi dell’operazione.
Altro vincolo introdotto per limitare l’accesso a quota 100 è la non cumulabilità tra pensione percepita con questo canale e redditi di lavoro autonomo o dipendente. E’ una norma che può favorire il lavoro nero, come era in precedenza il divieto di cumulo. Risibili,infatti,erano nel bilancio Inps i risparmi derivanti dal divieto di cumulonegli anni in cui esisteva, praticamente assenti nei bilanci Inpdap.
Oltre a “quota 100” il decreto contiene anche altri interventi.
L’adeguamento in base alla speranza di vita dell’età contributiva per l’accesso al pensionamento anticipato è abrogato, restano quindi in vigore i requisiti del 2018 (42 anni e 10 mesi per gli uomini, 41 anni e 10 mesi per le donne) che sarebbero dovuti invece aumentare di cinque mesi. E’, tuttavia, introdotta una finestra di tre mesi per il godimento della pensione. La riduzione effettiva rispetto a quanto previsto è quindi di due mesi. Stessa cosa per i requisiti dell’accesso alla pensione per i lavoratori “precoci”. L’adeguamento alla speranza di vita è abrogato (restano quindi i 41 anni) ed è introdotta una finestra di 3 mesi.
In base al decreto i requisiti contributividella pensione anticipata e per i precoci non sono più soggetti all’adeguamento in base alla speranza di vita. Resta invece in vigore l’adeguamento per i requisiti anagrafici della pensione di vecchiaia. Prosegue quindi la “linea” iniziata da Amato nel 1992 con l’aumento dell’età per le pensioni di vecchiaia, di colpire principalmente i lavoratori più deboli che non hanno possibilità di accesso alla pensione anticipata.
Certamente positive sono le norme con le quali è prorogata per il 2019l’Ape sociale ed è ripristinata l’opzione donna nei confronti delle lavoratrici dipendenti che entro il 31/12/2018 hanno compiuto 58 anni se dipendenti o 59 anni se lavoratrici autonome. Resta la finestra di 12 mesi (18 per le autonome) per il godimento della pensione.
I sindacati confederali hanno posto sia ai governi precedenti che a questo il tema delle pensioni future e del loro importo. Calcolo sull’intera vita contributiva e precarietà nel lavoro pongono il problema dell’importo insufficiente di molte pensioni future, di qui la richiesta di una pensione di garanzia per il futuro, una sorta di integrazione al minimo non prevista nel sistema contributivo.
Il decreto si muove in una direzione diversa e limitata,prevedendo la possibilità di riscattare onerosamente periodi di non lavoro (non soggetti ad obbligo contributivo è la dizione) compresi tra il primo e l’ultimo contributo accreditato, per un massimo di 5 anni. La possibilità è riservata ai soli lavoratori cui si applica il sistema contributivo (privi di anzianità retributiva prima del 1996). Questo riscatto seppure calcolato secondo le regole vigenti, risulta alla fine più oneroso di quelli attualmente previsti perché può essere dilazionato in solo 60 rate (oggi 120) ed è detraibile nella sola misura del 50% (oggi 100%).
Per i soli lavoratori del settore privato l’onere del riscatto può essere sostenuto dall’azienda, ma utilizzando i premi di produzione spettanti al lavoratore. In questo caso l’azienda può dedurre il costo dal reddito di impresa e resta la deducibilità dal reddito del lavoratore.
Il decreto estende alla pensione con “quota 100” quanto già previsto ai fini della pensione anticipata o di vecchiaia dal decreto legislativo 148/2015. I Fondi di solidarietà bilateralipossono erogare un assegno straordinario per il sostegno al reddito a lavoratori che raggiungano i requisiti previsti per l’accesso alla pensione “quota 100”, nei successivi tre anni. L’assegno può essere erogato solo in presenza di accordi collettivi di livello aziendale o territoriale sottoscritti con le organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale nei quali è stabilito a garanzia dei livelli occupazionali il numero di lavoratori da assumere in sostituzione dei lavoratori che accedono a tale prestazione.
Il decreto, infine, prevede il ritorno a una direzione collegiale di Inps e Inail con la costituzione di un Consiglio di amministrazione composto da Presidente e 4 membri. I CdA riassumono le funzioni che avevano in base al DLgs 479/1994, restano i CIV con le stesse funzioni. I requisiti per la nomina in CdA dovrebbero restare quelli previsti dal DLgs 479.
Da anni è in corso una discussione sulla governance degli enti, discussione che riguarda ruoli e funzioni dei diversi organi. Il decreto ignora tutta questa discussione, non l’affronta, limitandosi a ripristinare il CdA con le vecchie funzioni. Può anche essere considerato positivo il venir meno di una figura sola a capo degli istituti previdenziali, certo non era e non è solo questo il problema di governance di questi enti.