La disoccupazione giovanile e, più in generale, le condizioni di lavoro dei giovani costituiscono una delle principali preoccupazioni collettive, in Italia e nell’Unione Europea (UE). In Italia l’emergere del problema è di vecchia data. E negli ultimi anni, anche se il tasso di attività dei giovani in mezzo secolo si è dimezzato – per la crescita della scolarità secondaria superiore e terziaria – il tasso di disoccupazione dei 15-24enni è cresciuto ed è stabilmente intorno al 35%. Nel contesto dell’UE, poi, la disoccupazione giovanile italiana presenta un’altra peculiarità: soltanto due paesi, Grecia e Spagna, hanno tassi disoccupazione giovanile – e generale – più elevati; eppure presentano un rischio relativo di disoccupazione giovanile – dato dal rapporto fra il tasso di disoccupazione dei 15-24enni e quello dei 25-74enni – dell’ordine rispettivamente di 2,5, e 2, di molto inferiore al 3,5 dei giovani italiani. Nel nostro paese la polarizzazione fra insidere outsidersi connota, dunque, ancora oggi e molto più che negli altri paesi europei, in senso generazionale.
Queste sommarie evidenze si riferiscono a dati di stock, detto in altro modo risultano da ‘fotografie’ di diversi insiemi di soggetti. Per cogliere l’entità e le caratteristiche dei mutamenti nel percorso di partecipazione al lavoro dei giovani, è necessario disporre di informazioni più ricche: basi di dati longitudinali che seguano nel tempo differenti gruppi di giovani e ne documentino un’adeguata porzione del corso di vita lavorativa; detto in altro modo serve disporre di un ‘macchina da presa’ e filmare le storie di tali gruppi. È la strada seguita da Bazzoli, Marzadro, Schizzerotto e Trivellatoin un recente articolo incentrato su due coorti di giovani. Ne delineo qui tratti e risultati salienti.
L’esperienza di integrazione di microdati da due fonti e il disegno di formazione delle coorti
Lo studio poggia sull’integrazione di due fonti: l’indagine longitudinale Condizioni di vita delle famiglie trentine(nel seguito Panel) e gli archivi amministrativi dell’Inps relativi alla provincia di Trento (nel seguito Inps). Panelè condotto su un campione dell’intera popolazione; ovvia così al limite della fonte Inps, che non copre l’insieme dei lavoratori. Dal canto loro i dati Inps, trattati in modo adeguato, forniscono informazioni più dettagliate e affidabili sulla gran parte degli episodi di lavoro. In definitiva, l’integrazione consente di disporre di un insieme di dati ricchi e credibili, cruciali per lo studio di storie lavorative (per maggiori dettagli si veda questo Working Paper).
Il periodo di osservazione si estende sul quarantennio dal 1974 al 2014. Lo studio verte sui primi otto anni delle storie lavorative di due coorti di giovani trentini. La finestra di osservazione, abbastanza lunga, consente di cogliere i tratti salienti della mobilità di lavoro e di carriera. Operativamente, si è scelto di seguire due coorti con le seguenti caratteristiche:
- – la corte dei nati tra il 1959 e il 1966 ed entrati nel mercato del lavoro in età compresa tra i 15 e i 29 anni, ossia nel periodo 1974/95, e
- – la coorte dei nati tra il 1975 e il 1982 ed entrati nel mercato del lavoro sempre in età compresa tra i 15 e i 29 anni, ossia nel periodo 1990/2011.
Nel seguito mi riferisco alle due coorti come, rispettivamente, coorte 1 e coorte 2.
Il campione che ne risulta è di 1.416 giovani che hanno avuto almeno un’esperienza di lavoro. La ricerca si configura quindi come studio pilota su piccola scala: ha come riferimento la popolazione residente nella Provincia autonoma di Trento; utilizza un campione di dimensioni modeste. Ne vengono vincoli sul dettaglio delle analisi che è ragionevole svolgere. In particolare, la classificazione dei giovani per tipo di occupazione è di necessità compatta, in quattro modalità: Dipendente privato, Dipendente pubblico, Lavoratore autonomo e Lavoratore precario (tab. 1).
Per un altro verso, nell’ultimo mezzo secolo livelli e le dinamiche della partecipazione al lavoro del Trentino non si discostano gran che dal resto delle regioni centro-settentrionali, come documenta la Banca d’Italia. Soprattutto per quanto attiene ai cambiamenti delle storie lavorative fra le due coorti, è quindi ragionevole ritenere che, all’ingrosso, i risultati dello studio siano rappresentativi delle più generali dinamiche dei giovani del centro-nord del paese.
L’occupazione nei primi otto anni di storia lavorativa: un’analisi centrata sugli episodi. I periodi di ingresso delle due coorti di giovani nel lavoro si collocano lungo un trend di decelerazione e di ristagno, tanto dell’economia che della partecipazione al lavoro. Alle dinamiche tendenziali e congiunturali (queste ultime di rilievo modesto, perché investono i due periodi in modo non dissimile) si affiancano i cambiamenti nella regolazione del lavoro. Dalla metà degli anni ’90 essa accentua progressivamente la «flessibilità al margine» (P. Sestito, Il mercato del lavoro in Italia. Com’è, come sta cambiando, 2002), a danno dei giovani e in generale dei (ri)-entranti. Ci si attende, dunque, che la coorte 2 presenti storie lavorative più difficili – se così si possono qualificare – di quelle della coorte 1. Ma a che livello si colloca la mobilità di lavoro della coorte 1? Quanto essa aumenta muovendo alla coorte 2? E in quale misura livelli e variazioni della mobilità differiscono per genere, per scolarità, per tipo di occupazione?
Guardiamo innanzitutto all’insieme degli episodi di occupazione che si collocano nella finestra di otto anni di storia lavorativa delle due coorti, entrate nel lavoro rispettivamente intorno al 1984 e al 2001. Le tabb. 2 e 3 riportano il numero medio degli episodi, la loro durata media e quella totale media (espresse in mesi), rispettivamente per genere e per scolarità. Valgono due semplici identità: la durata totale degli episodi di occupazione è pari al prodotto del loro numero medio per la durata media; la differenza fra la finestra di osservazione di 96 mesi e la durata totale dà il tempo medio trascorso nella condizione di Non lavoro.
I principali risultati sono in tre proposizioni. Già la coorte 1 mostra una mobilità di lavoro piuttosto alta: oltre 4 episodi di occupazione, di durata mediamente inferiore a 17 mesi, quindi con un durata totale nella condizione di occupato di poco inferiore ai 70 mesi. La mobilità cresce in misura considerevole, statisticamente significativa, nella coorte 2: il numero degli episodi di occupazione aumenta di oltre il 20% e si attesta sui 5; all’opposto, la durata media degli episodi cala a 13 mesi; di conseguenza, la durata totale dell’occupazione si contrae a 65 mesi. I mutamenti sono di rilievo per due ragioni: si realizzano fra due coorti mediamente distanti soltanto 17 anni; accentuano, tutti, i tratti di instabilità e frammentazione del lavoro.
Tale processo presenta, poi, una moderata differenziazione per genere. Per le donne, che nella coorte 2 hanno ormai superato gli uomini quanto a scolarità, il percorso verso la parità non si estende al lavoro. Registra anzi una battuta d’arresto, che si manifesta in una maggiore, sia pure contenuta, crescita dell’instabilità e della frammentarietà della storia lavorativa.
Decisamente netta è, invece, la divaricazione nei cambiamenti che interessano i giovani con diversa scolarità. In proposito, importa tenere conto che fra le due coorti vi è un cambiamento vistoso della scolarità. Detto in breve, il rapporto fra le percentuali dei giovani meno istruiti – al più qualificati – e di quelli più istruiti – almeno diplomati – va oltre il capovolgimento: dal 60/40% nella coorte 1 al 36/64% nella coorte 2. Dal confronto fra le due coorti, poi, sono i giovani diplomati e laureati i più penalizzati – i secondi in misura accentuata – in termini sia di tempo complessivo di lavoro sia di instabilità e frammentazione degli episodi di occupazione.
L’occupazione nei primi otto anni di storia lavorativa: un’analisi delle storie lavorative. Guardare alle storie lavorative significa cambiare l’unità di analisi che consta ora della sequenza di episodi – di lavoro e di non lavoro – di ciascun individuo nella finestra di osservazione di otto anni. L’interesse prevalente è nell’analisi della mobilità fra tipi di occupazione. Occorre considerare, peraltro, che un individuo può avere – e molto spesso ha – episodi in diversi tipi. Quindi, la misura della mobilità non può che riferirsi a tipi di occupazione dominanti. Ciò richiede di specificare una soglia di prevalenza – fissata al 75% della permanenza nell’occupazione, la quale consente di classificare i giovani che hanno avuto episodi in più di uno dei quattro tipi (vedi ancora la tab. 1) o in un ulteriore tipo – chiamato “Occupazione mista” – nel quale sono appunto collocati i giovani per i quali la soglia di prevalenza non sia stata raggiunta in alcuno dei tipi originari.
I risultati principali dell’analisi della mobilità per occupazione prevalente sono nella tab. 4, che, al solito per le due coorti, fornisce due blocchi di informazioni: (i) dà la distribuzione dei giovani per tipo di occupazione prevalente; (ii) fornisce il numero medio degli episodi, distintamente del tipo in questione, di altri tipi e di Non lavoro.
Innanzitutto, muovendo dalla coorte 1 alla coorte 2 la distribuzione del giovani per occupazione prevalente mostra un profondo cambiamento: la frazione di giovani nel Lavoro dipendente privato – il tipo dominante – cresce ulteriormente e raggiunge il 66%; all’opposto, la frazione di giovani nel Lavoro dipendente pubblico e nel Lavoro autonomo si riduce di oltre la metà e si attesta, rispettivamente, al 5,2 e al 3,6%; quella nel Lavoro precario rimane sostanzialmente invariata; infine, cresce sensibilmente, dal 13,7 al 18,8%, la frazione di giovani con Occupazione mista.
Già l’aumento dell’Occupazione mista suggerisce una crescita della mobilità di lavoro. Questa dinamica trova nitida conferma nel diffuso incremento, in ciascun tipo di occupazione prevalente, del numero di episodi: tanto di occupazione – sia entro il tipo in questione sia negli altri tipi – quanto di non lavoro, e quindi totale.
L’evoluzione verso una maggiore instabilità e frammentazione del lavoro si caratterizza, infine, per un importante tratto distintivo. Essa non risulta dall’ampliamento della frangia più debole dei giovani – nella coorte 2 i “Lavoratori precari” sono il 5,7%, quindi meno del 6% nella coorte 1. L’incremento della mobilità è, invece, l’esito di un processo di crescita diffusa dell’instabilità e della frammentarietà delle storie lavorative. Detto altrimenti, favorito anche dai cambiamenti nella regolazione dei rapporti di lavoro, lo spazio della ‘precarietà’ si è dilatato: per un verso ha aggredito tutti i tipi di occupazione, segnatamente il pubblico impiego e il lavoro autonomo; per un altro verso ha incluso in misura crescente episodi di Non lavoro.
Un interrogativo cruciale. Pur con le cautele che impone uno studio pilota, questi risultati inducono una forte preoccupazione. Tanto più se si considera che i molteplici aspetti critici che connotano – con intensità crescente – la partecipazione al lavoro dei giovani si manifestano in un paese con un tasso di attività e un tasso di formazione terziaria decisamente più bassi della media europea (cfr. Oecd, Education at a Glance 2018).
Palesemente, la questione chiama in causa ritardi e distorsioni strutturali dello sviluppo economico italiano. Dopo più di vent’anni di regolazioni e politiche del lavoro (e altre) «al margine», largamente dominate da occasionali sussidi alle imprese, al meglio mediocri, è sorprendente – e inquietante – che il dibattito pubblico resti incentrato sul brevissimo periodo. La sfida è far crescere il lavoro e la qualità del lavoro. Una sfida difficile, certo. Ma sarebbe già un passo avanti se si facesse strada la consapevolezza che questa è la sfida. Condizione, questa, indispensabile per cominciare a misurarsi con i problemi strutturali del lavoro e delle sviluppo e a darsi obiettivi realisticamente ambiziosi, in un orizzonte di medio-lungo periodo.
(*) Statistico. Professore emerito della Facoltà di Scienze Statistiche dell’Università di Padova.