La notizia dell’accordo per l’acquisto di Chrysler tra la Fiat e il Fondo Veba, di proprietà del Sindacato dei Lavoratori americani dell’auto UAW, è finalmente una buona notizia. A mio avviso è veramente una buona notizia sia per l’universo Fiat, sia per il sistema industriale italiano e sia anche per i lavoratori italiani. Questo per almeno due motivi principali.
Il primo motivo è che finalmente si è trovato per Fiat Auto un partner internazionale con rilevante presenza sul mercato globale, in particolare il Nord America, e con marchi di indubbia rilevanza mondiale, come il marchio Jeep, che consentiranno al nuovo gruppo di posizionarsi tra i grandi costruttori mondiali di automobili del XXI secolo. La fusione Fiat-Chrysler pone così fine alla tormentata vicenda di trovare un partner a Fiat Auto, iniziata quasi trent’anni fa con le ipotesi di matrimonio con Peugeot e proseguita poi a fine anni ’90 con l’accordo di vendita a General Motor. Bisogna riconoscere a Marchionne l’indubbio merito di aver trovato sul mercato mondiale un buon matrimonio per Fiat Auto: per convincersene basta considerare le clausole dell’accordo con GM (che tra le tante ipotesi di alleanza era forse la migliore) e che da molti era stato considerato una sorta di vendita agli americani per evitare il fallimento dell’azienda italiana.
Ragionando sul lungo periodo è indubbio che per Fiat Auto la fase di risanamento, condotta da Marchionne dal 2004 al 2007, è da considerarsi una fase preliminare, che ha predisposto Fiat Auto alla ricerca di un buon partner con cui fondersi per affrontare in modo adeguato le nuove sfide del mercato globale e del nuovo secolo. E bisogna ammettere che la gestione della fase 1 di risanamento da parte di Marchionne è stata lungimirante, proprio in vista della fusione con un nuovo partner, perché si è focalizzata su un risanamento interno con le proprie forze. Come è noto, questo risanamento si è basato sullo sviluppo di nuove tecnologie di prodotto e l’adozione del WCM e di nuove soluzioni tecnico/organizzative per le fabbriche, che hanno prodotto dei buoni risultati sino al 2007, come unanimemente riconosciuto in Italia da tutti. Non a caso, il governo americano si è convinto ad accettare l’alleanza tra Chrysler e Fiat anche per l’apporto di nuove tecnologie di prodotto (i motori più ecologici) e di processo (il WCM) che Fiat Auto poteva vantare.
Il secondo motivo è che il matrimonio con Chrysler non si configura né come una vendita (mascherata) né come una semplice alleanza per risparmiare un po’ sui costi di produzione, ma come un vero e proprio matrimonio con doti portate da ambedue gli attori. Certo Marchionne è stato fortunato: la rapida ripresa del mercato dell’auto in Nord America, la crescita delle vendite di Chrysler e il successo dei nuovi modelli Jeep, hanno favorito la soluzione, hanno finanziato in gran parte l’operazione di acquisto e si spera che finanzino anche gli investimenti dei prossimi anni di cui il nuovo gruppo ha assoluta necessità.
Il nuovo gruppo nasce dunque da una occasione unica e particolare (collegato alle conseguenze della grande crisi), da una straordinaria intuizione di Marchionne (quella di mettere insieme due grosse debolezze , quella della Fiat italiana e quella della Chrysler americana) e da una congiuntura molto fortunata( la rapida ripresa delle vendite di auto in Nord America su cui nessuno 5 anni fa avrebbe scommesso). Ma ora che la nuova azienda globale si è avviata, bisogna costruirla e darle effettivamente una dimensione e una architettura adeguata ai tempi e, si dovrebbe dire nel nuovo linguaggio, di tipo “World Class”.
A mio avviso tra i tanti problemi che un’azienda globale pone, è interessante chiedersi come saranno risolti i tre principali che sono anche i più complicati.
Il primo problema è quello di come trovare i soldi per finanziare gli investimenti nei nuovi modelli e nelle nuove fabbriche che li costruiranno. Sul tema investimenti Marchionne nelle sue ultime interviste a “Repubblica” ha chiarito molto bene che gli azionisti non hanno messo neanche un euro per il primo ingresso in Chrysler e che oggi non è all’ordine del giorno un aumento di capitale per finanziare il futuro del gruppo: i soldi vanno trovati sui mercati finanziari e non vanno chiesti agli azionisti. E, aggiungiamo noi, neanche l’acquisto dell’ultimo 40% di Crhysler è stato finanziato dagli azionisti con capitali freschi: si sono messe a dieta tutte le aziende del gruppo (compreso CNH e Iveco) per 4 anni per fare cassa allo scopo di comprare tutta la Chrysler.
La domanda che dall’esterno viene spontanea è allora la seguente: perché una delle più grandi e moderne famiglie imprenditoriali italiane non accetta il rischio di investire, proprio in questa congiuntura storica in cui converrebbe rischiare per affermarsi bene nel nuovo secolo ? Dove è finita l’etica del capitalismo per cui chi rischia una parte del patrimonio ha giustamente diritto a utili anche cospicui ? Perché le aziende sono oggi considerate solo come un patrimonio famigliare da gestire con il minimo dei rischi ? o sono qualcos’altro di più ? Perché si è così restii a investire sul nuovo, rischiando sul futuro ?
La seconda questione è quella della gamma dei nuovi modelli da lanciare sui mercati globali. Qui le sfide per il management e per i progettisti dei nuovi prodotti sono molto impegnative. Infatti Fiat e Chrysler vengono non solo da tradizioni industriali diverse ma anche da mercati e da clientela molto diversificata. E invece oggi le economie di scala, l’ampiezza enorme di gamma e la modularità dei prodotti e delle piattaforme richiedono un approccio ben più che integrato ! Anche su questo punto, nell’intervista a ”Repubblica”, Marchionne ha fatto affermazioni molto decise e forti. “ La nostra strategia è uscire dal mass market, dove i clienti sono pochi, i concorrenti tanti, i margini bassi…..” Il futuro è “nella fascia Premium, prodotti di alta qualità, con concorrenza ridotta” nella quale si possono usare marchi fantastici come Alfa Romeo e Maserati. “ Fiat andrà nella fascia alta del mass market, con le famiglie Panda e 500 e uscirà dal segmento basso e intermedio ..”. L’idea del prodotto italiano di lusso da vendere sui mercati mondiali è indubbiamente un’idea buona e che sta avendo successo non solo nella moda, ma anche nel campo alimentare (basta pensare ai fantastici incrementi delle esportazioni di vino, di grana padano e persino di olio di oliva), nei prodotti di arredamento e anche nelle automobili di lusso come Ferrari e Maserati. Quindi benissimo l’idea di rilanciare il marchio Alfa Romeo, con motori Ferrari, come auto sportiva di lusso nel mondo: su questo punto però devo dire che un “vecchio alfista”, milanese doc, mi ha chiesto, con stizza, come mai non lo avessero pensato prima !
Ma al di là delle discussioni sul passato, i dubbi su questo tema sono due. Il primo dubbio è se ci sia coerenza tra una strategia che punta a essere uno dei 6 più grandi gruppi mondiali di car maker e l’abbandono del mass market. Le due cose, in effetti, sembrano strettamente collegate. Infatti con tutta evidenza i più grandi produttori mondiali puntano a una gamma completa in tutti o quasi i segmenti, anzi si espandono in quelli dove erano più deboli, basta osservare Toyota, VW, Mercedes e così via. Quindi se la strada è quella indicata dell’azienda globale, prima o poi si dovrà affrontare il problema del mass market, come per altro sta già facendo egregiamente Fiat Industrial . Forse Marchionne ha ragione nel senso che il lusso (e il segmento premium) possono a breve essere il settore dove è più facile inserirsi, o forse va detto che questo settore è quello che richiede meno investimenti nel breve, tenuto conto dei progetti che già sono nel cassetto e della rete di vendita disponibile. Ricordiamoci che il nuovo gruppo ha una buona rete di vendita in America ma è debole in Cina proprio nel mass market. E qui si torna al punto di prima: dove trovare i soldi per investimenti elevatissimi, visto che i mercati sono esigenti e che gli azionisti non vogliono aumenti di capitale. Forse sarebbe più esatto dire che sul lusso si può sfondare subito, mentre il mass market richiede più tempo e molto più denaro. Il secondo dubbio riguarda la ripresa delle produzioni in Italia e il rientro dei Cassintegrati: con i modelli Premium ipotizzati quanto sarebbe l’utilizzo degli impianti italiani ? Bastano i nuovi modelli annunciati, o in corso di annuncio, a generare lavoro in grado di riassorbire tutti i lavoratori attualmente in cassa ? E in quanto tempo, visto che le previsioni per l’ Europa continuano a spostare in avanti la data della ripresa? Su questo punto è meglio non fare previsioni ma i numeri sono veramente drammatici.
Infine c’è un terzo problema relativo al network produttivo mondiale e alla catena logistico- distributiva, dalle fabbriche, ai fornitori sino alla rete di vendita. Su questo punto la lezione americana dovrebbe essere presa seriamente in considerazione da tutto il sistema industriale italiano. Infatti comincia ormai a essere noto a molti, e non solo agli specialisti, che la principale debolezza del nostro sistema industriale di fronte alla globalizzazione è la difficoltà e incapacità a costruire lunghe e complesse catene produttive, di acquisto e di vendita in grado di coprire sia il mercato dei produttori sia il mercato d ei consumatori con dimensione e con efficienza mondiale. Si sa che le imprese italiane che vanno bene e che stanno crescendo con le esportazioni sono quelle che per tempo si sono dotate in modo efficiente di catene logistico produttive globali e di reti di vendita di ampiezza su molti continenti. Il gruppo Fiat aveva una parte (CNH e Iveco) che da tempo operavano in questa direzione, mentre Fiat Auto stava invece forse andando indietro rispetto al passato. La fusione con Chrysler mette le premesse invece per un netto salto in avanti di qualità, espandendo la catena logistica e obbligando gli attori a un netto salto di cultura gestionale per poterla attuare e gestire in modo efficiente. A mio avviso la rapidità con cui è stata attuata la fusione costituisce una lezione americana che andrebbe studiata per svecchiare il nostro sistema industriale, così come bisognerebbe rileggere Calvino sulla velocità e sulla leggerezza necessarie al nuovo secolo per capire appieno la lezione. Tuttavia il compito è ancora tutto da svolgere e la fusione della catena logistico- produttiva e di vendita è ancora un lavoro molto duro da fare. A mio avviso c’è un punto di forza e uno di debolezza in questo compito.
Il punto di forza è nella cultura del WCM (World Class Manufacturing) e delle sue metodologie di miglioramento dei sistemi produttivi e di organizzazione del lavoro nelle fabbriche. Il WCM, seppure elaborato in Italia con un forte contributo dei tecnici giapponesi, è tuttavia una linguaggio produttivo globale, ricco di esperienze di fabbrica e basato su una comunità professionale internazionale ampia ed esperta. Tra l’altro la rapida applicazione del WCM in Chrysler, che ha visto il sindacato operaio UAW protagonista della sua diffusione, è stato un ingrediente fondamentale del salvataggio e della ripresa di Chrysler. In America la scuola del WCM è gestita dal sindacato UAW. Il WCM è stato portato in Chrysler dalla squadra dei giovani tecnici italiani che si sono formati tra il 2004 e il 2008 in Fiat nel rinnovamento delle fabbriche italiane: quindi è già un punto in comune tra le due aziende in fusione.
Il punto di debolezza è a mio avviso ancora nella cultura tradizionale delle due aziende: in Italia è ancora diffusissima una cultura centralistica, a base gerarchica, dove prevale l‘ obbedienza e l’appartenenza, a scapito dell’innovazione e della partecipazione, con il suo strascico di sospetti e di pregiudizi, di distanza tra chi lavora e chi dirige. E’ vero che nei nuovi stabilimenti la cultura sta cambiando e che si è adottato un sistema di lavoro in team al posto della gerarchia tradizionale, ma la strada è ancora lunga. Anche le relazioni industriali sono quelle note. Su di esse c’è da augurarsi che si faccia il contrario del WCM; e cioè copiare in Italia gli accordi che sono stati siglati in America. A mio avviso in primo luogo si dovrebbero copiare gli accordi sulla partecipazione diretta e organizzativa dei lavoratori alla gestione del processo produttivo, in secondo luogo andrebbero copiati gli accordi sulla scuola del WCM gestita dai sindacati. Ogni esperienza dovrebbe dare il meglio di sé per la costruzione di una cultura nuova. Le relazioni industriali potrebbero essere il vero banco di prova della nuova cultura da costruire.
(*) docente di organizzazione aziendale al Politecnico di Milano