L’Istat ha fatto un lavoro egregio con il “Rapporto sul mercato del lavoro 2018:verso una lettura integrata” (vedere testo in allegato all’articolo). Ha preso in considerazione gli anni dell’ultima crisi. Quella iniziata nel 2008 e che sembrava finita nel 2018. Invece, com’è noto, il 2019 ci ha di nuovo allarmato. Ma questa è cronaca ancora incerta. Ciò che è certo è che l’ultimo decennio ci consegna un mercato del lavoro in grande sofferenza, con vistose sfumature professionali e territoriali e facendo intravvedere in prospettiva, non tanto lontana, un cambiamento strutturale della sua composizione. E’ una raccolta di cifre e grafici, ma anche di commenti ed interpretazioni di un’Italia che, nelle difficoltà, si ingegna e si arrangia, osa e si difende, cerca l’eccellenza e si accontenta della mediocrità. Tutto e il contrario di tutto, allargando contraddizioni, disuguaglianze, incertezze. Una permanente emergenza che annebbia le prospettive.
Ci sono tre messaggi che vale la pena di raccogliere. Il primo lo fornisce una carrellata di numeri riferita all’occupazione complessiva. Questa è cresciuta tra il 2008 e il 2018 di 125,000 unità, toccando il traguardo di 23,3 milioni di persone occupate. Un recupero significativo, soprattutto se si tiene conto che nello stesso periodo la produzione di beni e servizi si è attestata su livelli più contenuti rispetto a quelli dell’inizio della crisi (- 3,8%). A rendere, però, questo quadro meno ottimistico, è innanzitutto il dato delle ore lavorate. Nel periodo considerato l’ammontare globale di esse è stato di 1,8 miliardi di ore in meno (pari a circa 10,000 occupati a tempo pieno). Non è una notizia clamorosa, ma segnala che lavorano più persone che però producono di meno. Con la conseguenza di una produttività ancora troppo bassa rispetto alla media europea. Dati recenti del FMI lo certifica (tra il 2000 e il 2016 la Germania + 18,4%; la Francia, la Spagna e Il Regno Unito + 15%, l’Italia + 0,4%). Poi c’è la conferma che nel decennio crescono i lavoratori a tempo determinato (+ 735,000, di cui 613,000 sotto i 6 mesi consecutivi) e i part time involontari (+ 1,5 milioni) e diminuiscono i lavoratori a tempo indeterminato (- 866,000) e i lavoratori indipendenti (- 602,000).
Un cambiamento strutturale che ha reso più fragile e instabile il panorama lavorativo. Un duro colpo al posto fisso, a vita, sicuro. Una conferma della necessità di non illudersi che, se c’è crescita, tutto torna come prima. Il lavoro in questi anni non è più lui. Non solo è scarso ma è cambiato perché sono cambiati i prodotti, le tecnologie, l’organizzazione del ciclo produttivo, le professionalità. E non sono cambiati abbastanza, se si tiene conto che non sono migliorate le condizioni ecologiche ed ambientali – che molto peseranno, in positivo più che in negativo – sul futuro del lavoro. Bisogna concentrarsi sulla qualità del lavoro, non indulgere sulla tutela del posto di lavoro. Le difficoltà vanno risolte con l’innovazione non con la conservazione. Quindi, imprenditorialità spinta alla riconversione impiantistica e alla innovazione di prodotto; formazione per tutta la vita per assicurare ai singoli di non rimanere squalificati dall’usura di ciò che si conosce; politiche attive vere e non finte per alzare il livello professionale delle persone; politiche contrattuali che tutelino le forme di lavoro a tempo determinato, facendole costare di più, soprattutto dal lato previdenziale.
La seconda indicazione riguarda il lavoro femminile. Nel decennio hanno trovato lavoro 500,000 donne in più che nel 2008. In parte hanno sostituito lavoro maschile, sceso di 388,000 unità. In larga parte le donne sono concentrate nei vari settori del terziario privato e pubblico e nei lavori precari o a tempo parziale. Segno dei tempi. La torta non è cresciuta e la polarizzazione tra produzioni a media e alta professionalità e quelle a bassa e bassissima professionalità ha fatto il resto. Le donne hanno trovato lavoro lì dove gli uomini non erano più considerati necessari e dove potevano meglio conciliare vita e lavoro. L’assenza di servizi adeguati, a partire dagli asili nido, è stata una ulteriore spinta ad accettare professionalità e salari più bassi. Anche la demografia ne ha risentito. Più morti che nascite. La maternità ritardata o non voluta per necessità sta impoverendo il Paese di forze fresche. I grandi investitori, nei loro calcoli di convenienza nell’allocazione delle attività, tengono presente l’indice di natalità e se continua questo trend, l’Italia farà fatica a competere. Quindi, il lavoro femminile va favorito non con mestieri e salari miserabili, ma con un sistema integrato di welfare aziendale e pubblico che consenta la piena affermazione delle potenzialità professionali, sociali e umane di ogni singola donna.
Il terzo segnale viene dal Sud. La sofferenza e l’uscita dalla crisi lo vede mal messo. Il Centro Nord registra non solo un pieno recupero rispetto al 2008 ma un incremento nel decennio di 376,000 unità. Il Sud un arretramento di 262,000 occupati. Già in partenza i rapporti occupazionali erano marcati. Se a fine crisi il bilancio è ulteriormente peggiorato, vuol dire che l’abbandono del Sud ha una drammatica linearità. Abbandonato dai decisori pubblici, abbandonato dai giovani, abbandonato finanche della criminalità organizzata, ormai dilagante soprattutto al Nord. La situazione è resa ancora più difficile perché si va affermando una mentalità rinunciataria di tutti, con ripiegamento sull’assistenzialismo e non sul valore del lavoro. L’apoteosi di questo cedimento culturale è il successo nel Mezzogiorno di quota 100 per le pensioni e del reddito di cittadinanza. Quindi, qualsiasi politica alternativa deve fondarsi su una strategia del lavoro non tradizionale. Devono venire prima efficienti infrastrutture materiali ed immateriali soprattutto, prima adeguate postazioni sociali (scuola, sanità), poi le attività produttive secondo le vocazioni locali. Queste senza quelle non potranno competere nel tempo in modo soddisfacente e senza incentivi. Ma chi potrà essere il motore di questo nuovo ciclo meridionalistico?
Tutti questi messaggi che vengono dai dati fornitici dall’Istat, convergono sulla necessità di una visione nuova del lavoro, come componente centrale della vita delle persone e non come accidente della storia. C’è troppa enfasi sull’avvenire delle nuove tecnologie come de profundis del lavoro, sia manuale che intellettuale. In realtà vanno a morire le forme più note e stagionate del lavoro, non i lavoratori e le lavoratrici. Rimetterli al centro della discussione sociale e politica è un’esigenza vitale per uscire dall’emergenza dei comportamenti e inoltrarsi nella problematica del loro futuro. L’assistenzialismo – da non confonderlo con la lotta alla povertà – è l’eccetera di tale problematica, non il core business. Questo è come dare dignità ad una persona. E il lavoro resta, anche in questo secolo, il distintivo principale della personalità individuale. Prima lo si fa proprio, prima si uscirà dal pantano in cui ci dibattiamo.
Istat 234 Mercato-del-lavoro-2018