Debito pubblico, crisi, austerità ed errate politiche della BCE e della UE hanno portato il nostro paese in una pericolosa situazione. Il tasso di disoccupazione è salito al 12,8% nel 1° trimestre 2013 (3milioni e 83mila unità), mentre la disoccupazione giovanile è al 41,9% e per le ragazze meridionali raggiunge il 52,8%. Sono quasi 700mila i giovani in cerca di occupazione.
I salari reali sono in diminuzione: lavorano sempre in meno e quelli che lavorano guadagnano sempre meno, per la felicità dei consumi interni!
In questo contingente sono in sofferenza i meccanismi di CIG per carenza di risorse, aspetta una soluzione il problema degli esodati, vanno ridotte le tasse per lavoratori e imprese, vanno avviate politiche industriali e scelte di investimento e di sviluppo.
Nel frattempo assistiamo alla vergogna delle dichiarazioni dei redditi di imprese e di lavoro autonomo 2012, diffuse dal Dipartimento delle Finanze del Ministero dell’Economia. Un quadro da repubblica delle banane con gioiellieri, negozianti, ristoranti, macellai ed altre allegre consorterie che tengono aperte le loro imprese per beneficenza, con redditi mensili sotto la soglia della povertà. Una situazione di assoluto contrasto con il popolo dei dipendenti con sostituto di imposta (dirigenti, quadri, impiegati, operai) e dei pensionati, che regge circa il 90% dell’intero carico Irpef.
Senza giustizia ed equità fiscale, senza una patrimoniale che riequilibri gli enormi trasferimenti di ricchezza dai salari ai profitti ed alle rendite, avvenuti negli ultimi anni, senza fatti concreti è inevitabile l’esplodere anche di una rivolta fiscale.
Sarà difficile uscire dalla crisi senza misure per il lavoro e per la crescita, senza risorse e investimenti. Più che di nuove regole c’è oggi bisogno di lavoro, se non si vuole cadere nel paradosso di regolamentare sempre meglio (con maggiore libertà, fluidità, trasparenza ecc.) «un mercato del lavoro senza lavoro» che declina verso il vuoto, la desertificazione, il disinteresse per le persone reali. Perché finisce col volerle meno attive, meno presenti, meno professionali, solo più fungibili e provvisorie. In una situazione pesante e grave, le risposte utili non possono essere quelle abituali; servono misure politiche, non giuridiche, innanzitutto di redistribuzione del reddito e del lavoro disponibile.
Occorre un programma straordinario per il lavoro, che cominci col ridistribuire quello che c’è già e agganci ad esso livelli accettabili di reddito. Occorre ripartire dall’idea che il lavoro è un fondamentale diritto di cittadinanza, da cui dipendono tutti gli altri.
Vanno anche cambiate le regole del gioco europeo. L’aver predicato (FMI, BCE, UE, Germania…) come verità assoluta che solo l’austerità e i tagli possono portare alla crescita è stata una stupidaggine. Ha ragione Krugman: “… se oggi abbiamo una disoccupazione di massa non è perchè in passato abbiamo speso troppo, ma perché adesso spendiamo troppo poco…” e ancora:” … l’influenza della dottrina dell’austerità non può essere compresa senza parlare anche di classi sociali e di disuguaglianza”. La teoria della austerità e del rigore, le regole europee sul pareggio di bilancio in costituzione, il rapporto 60% da raggiungere con il Fiscal Compact sono decisioni criminali che rappresentano un cappio al collo all’economia del nostro paese. Così l’Europa non va bene. Come cambiare progetto europeo e regole?
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Se andiamo a guardare quello che succede nel mondo di chi un lavoro ce l’ha, di quelli che chiamiamo occupati e protetti, troviamo una situazione per nulla rassicurante.
Infatti, se per occupazione tutelata nel mercato del lavoro italiano, intendiamo quella quota parte del lavoro in un certo senso protetto – ritagliato sul modello fordista, a tempo pieno e indeterminato, inserito in un sistema assicurativo (previdenza, malattia, maternità, infortuni ecc.) e interno alla contrattazione collettiva nazionale – dobbiamo oggi rivedere completamente la nostra fotografia del mercato del lavoro.
Di questi lavoratori ormai ne esiste meno della metà dei dipendenti complessivi dai quali andrebbero detratti: tempi determinati, part-time involontari, casse integrazioni, mobilità, disoccupazioni, piccole e micro imprese dove le tutele non sono piene.
Nel mercato italiano si sta in effetti registrando da tempo uno scivolamento di quote importanti della popolazione occupata verso posizioni lavorative in cui la tutela dei diritti risulta molto indebolita. E non si tratta solo di quelle forme occupazionali definibili non standard; a rischio appaiono una gamma di posizioni, per la durata determinata dei contratti, per l’esaurimento dei meccanismi di sostegno al reddito (cassa integrazione, mobilità ecc.) e in generale per la crisi del sistema pensionistico.
Per di più, resta da stabilire la concreta applicazione della negoziazione collettiva dei contratti di lavoro, che perde di efficacia non solo per l’avanzare di sistemi di contrattazione individuale o d’impresa senza il sindacato, ma anche per la diffusa non applicazione dei contratti esistenti. In un sistema produttivo toccato profondamente da ristrutturazioni e riduzioni di scala, in cui 9 imprese su 10 sono piccole o piccolissime (sotto i 15 dipendenti), non è facile accertare le effettive modalità di svolgimento del rapporto di lavoro. Infatti le imprese fino a 19 dipendenti sono il 98,1% (4.387.804 unità), ed occupano 10.092.655 lavoratori, più della metà della platea di occupati in Italia (57,6%). Per questi lavoratori il massimo presidio di tutela rimane il contratto collettivo di lavoro.
In altri termini, spesso il dato formale è molto distante dal dato fattuale (caratteristiche e modalità concrete della prestazione) e persistono situazioni di uso improprio della forza lavoro, evidenti tra i «falsi autonomi» e nelle aziende a bassissima se non del tutto assente sindacalizzazione.
Assistiamo a un progressivo arretramento della quota di occupazione tutelata, dovuta a diversi fenomeni concomitanti: il calo strutturale della domanda di lavoro (disoccupazione, sostegni al reddito); l’aumento della porzione del lavoro atipico; la diffusione capillare del lavoro autonomo senza tutele; l’aumento della popolazione inattiva e, in maniera trasversale, la diffusione capillare del lavoro sommerso.
Uno dei punti più critici per la tutela del lavoro è in effetti collegato all’applicazione dei CCNL e al loro grado di copertura effettiva. Oggi né le organizzazioni datoriali, né quelle sindacali dei lavoratori sanno realmente a quanti lavoratori vengono applicati i CCNL ed in quale misura. Ogni azienda (nelle sue varie tipologie: impresa industriale, artigiana, commerciale, PMI, cooperativa ecc.) ha sicuramente questi dati e li tiene per sé; neppure le loro organizzazioni di rappresentanza li forniscono, e non per ragioni di riservatezza, ma perché spesso ne sono anch’esse prive.
L’attuale situazione economica, la diminuzione del numero di imprese e delle risorse, la crisi di rappresentanza e di rappresentatività, il costo delle strutture e degli apparati portano ciascuna organizzazione datoriale a non porsi più confini nel dato di adesioni verso tutte le tipologie di impresa. E’ una vera e propria guerra. Qui sta una delle principali ragioni dell’omertà sui dati e sull’assenza di trasparenza. Neppure i sindacati sono immuni dalla concorrenza sulle adesioni, sia all’interno tra i tre sindacati confederali, che in modo più rilevante quella che essi subiscono dalla moltitudine di sindacati autonomi. E’ da rimarcare che gli anni del governo di centro destra sono stati “ benefici “ per la nascita e la crescita di organizzazioni sindacali amiche, a partire dalla Ugl.
L’esistenza di ben 509 CCNL depositati al Cnel (per una parte di circa il 20-25% fasullo), la presenza di centinaia di sigle tra sindacali e datoriali che rende la situazione contrattuale ingovernabile, la mancanza nel settore privato di regole, hanno portato la democrazia a divenire frantumazione della rappresentanza ed indebolimento della forza e del ruolo contrattuale dei sindacati.
Senza certezza della rappresentanza e della rappresentatività e dell’applicazione dei CCNL, non conosceremo mai la quota effettiva di occupazione tutelata.
Nelle organizzazioni sindacali aumentano i lavoratori sindacalizzati non tramite delega, ma attraverso le quote di servizio; aumentano i pensionati e diminuiscono invece gli attivi. C’è una guerra per nuove egemonie o per la ricerca di spazi organizzativi, a danno di altri.
Comprimari e comparse si affannano attorno a Cgil, Cisl e Uil e alle storiche associazioni delle imprese. Tutti pronti a firmare contratti; si vedono strane alleanze tra associazioni datoriali e sindacati, spesso inesistenti, a braccetto per emergere dall’anonimato, millantando adesioni improbabili, e rivendicando posti in comitati e commissioni.
Si dichiarano iscritti e rappresentatività senza alcun pudore, e anche nella lettura dei dati organizzativi le posizioni divergono sempre. Ogni dato organizzativo è ormai pensato per l’esterno e per l’immagine: non serve tanto avere organizzati, quanto convincere di averne.
Il tema della rappresentanza – quella per via contrattuale e quella per via legislativa – va affrontato con solerzia, perché altrimenti è il sistema stesso di relazioni che viene danneggiato: si pensi solamente al dumping sociale che molti CCNL, stipulati al ribasso da organizzazioni di comodo, provocano sul mercato.
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A fronte di queste emergenze – quella economica e sociale, e a quella della rappresentanza e rappresentatività a supporto dell’attività contrattuale e dello stesso sistema di relazioni industriali – il documento degli Esecutivi Unitari di Cgil Cisl Uil è importante anche se tardivo. È possibile la lettura del documento, utilizzando questo LINK(Esecutivi Unitari 30.04.2013).
Le decisioni adottate riguardano l’assunzione del lavoro come dato centrale che deve ispirare le scelte politiche ed economiche del Paese. Cgil Cisl Uil indicano quindi una vera e propria piattaforma per affrontare i temi del lavoro, dell’economia e di tutte quelle misure atte a rilanciare la crescita con investimenti, redistribuzione del reddito, crescita dei consumi.
Sul versante della rappresentanza e della democrazia sindacale Cgil Cisl Uil portano a compimento, su questioni limitate, un processo di decisioni che, partendo dal documento unitario del 2008, era approdato all’accordo unitario del 28 giugno 2011 e mai realizzato in quanto mancava di alcune altre decisioni necessarie per realizzare le scelte indicate.
Quelle decisioni che ora sono definite riguardano:
– la rilevazione e la certificazione della rappresentatività basata sull’incrocio tra iscritti e voto proporzionale delle RSU. Laddove non ci siano le RSU varrà solo il numero degli iscritti. Le organizzazioni sindacali sono impegnate a confermare le RSU laddove esistenti;
– la titolarità della contrattazione nazionale per le organizzazioni sindacali firmatarie che raggiungano almeno il 5% della rappresentanza per ogni CCNL;
– gli accordi saranno definiti dalle organizzazioni sindacali che sommano almeno il 50%+1 della rappresentanza e dalla consultazione certificata dei lavoratori, a maggioranza semplice, le cui modalità attuative saranno stabilite dalle categorie per ogni singolo CCNL.
Sulla base di questo accordo, Cgil Cisl Uil hanno proceduto con Confindustria a definire un protocollo d’intesa che ha sicuramente un valore politico e simbolico, ma che ha come unico dato di novità la presenza di quelle scelte che hanno consentito: “… di dare applicazione all’accordo del 28 giugno 2011 in materia di rappresentanza e rappresentatività per la stipula dei CCNL…”.
Una discussione ben presente tra le tre centrali già dal 1992 – 93 e che portò nel settore pubblico alla formazione dell’Aran – Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni -, risolvendo in tal modo per via legislativa i problemi relativi alla rappresentanza e rappresentatività.
Nel settore privato, con l’accordo interconfederale del 1993, si affrontano tra l’altro il tema delle RSU e quello dell’assetto contrattuale. Quindi regole unitarie precise nel settore privato su rappresentanza, rappresentatività mancano fin dal ‘93 ed anche l’accordo interconfederale Confindustria e Cgil Cisl Uil del 28 giugno 2011 non ha risolto nulla perché non scioglieva importanti nodi politici di dissenso tra le centrali confederali. Se si guarda l’accordo del 2011 LINK (Accordo interconfederale Confindustria Cgil Cisl Uil del 28 giugno 2011), si vedrà che manca proprio della parte concordata in questi giorni ed avrebbe, se realizzata prima, forse fatto risparmiare due anni (2011-2013) di grandi divisioni sindacali.
Ora per imprese e lavoratori del sistema Confindustria si dovrebbe fare per via contrattuale quella regolamentazione che la pubblica amministrazione fece per via legislativa. Se così fosse si potrebbe parlare di una nuova fase sindacale, anche senza scomodare la storia.
Ma cosa dice, in parte di nuovo e in gran parte riproponendo scelte già presenti nell’accordo del 2011, l’accordo firmato il 31 maggio 2013?
Riportiamo integralmente il “ protocollo d’intesa” LINK (Protocollo d’intesa).
Chi vuole evitare la lettura integrale può seguire il nostro riassunto.
“ Con la presente intesa le parti intendono dare applicazione dell’accordo del 28 giugno 2011 in materia di rappresentanza e rappresentatività per la stipula dei CCNL”: questa è la vera finalità, il nocciolo dell’accordo.
Misurazione della rappresentanza:
– per certificare la rappresentatività delle organizzazioni sindacali, al fine di sedere ai tavoli contrattuali si assumono le deleghe per i contributi sindacali per ogni organizzazione trasmesse dal datore all’Inps e i voti ottenuti da ogni organizzazione nelle elezioni delle RSU;
– il numero di iscritti e i voti alle elezioni peseranno ognuno per il 50%;
– un certificatore esterno (es. Cnel) procederà con questi dati a calcolare, per ogni contratto, la rappresentanza di ogni organizzazione sindacale;
– le RSU verranno elette in prospettiva con voto proporzionale, superando il terzo finora garantito, destinato alle organizzazioni sindacali firmatarie dei CCNL;
– c’è l’impegno a rinnovare entro sei mesi le RSU scadute, a non costituire più le RSA e a trasformare in RSU quelle ancora esistenti.
Titolarità ed efficacia della contrattazione:
– con l’accordo ci sono regole per rendere esigibili i contratti per le due parti contraenti;
– a contrattare andranno solo le organizzazioni che superino il 5% di rappresentatività, calcolato sulla base delle regole previste;
– la presentazione delle piattaforme è lasciata alle categorie, con l’auspicio confederale di concordare piattaforme unitarie;
– il CCNL rinnovato è valido ed esigibile purché: 1) sia sottoscritto almeno dal 50% +1 delle organizzazioni sindacali trattanti e 2) sia approvato con consultazione certificata dei lavoratori, a maggioranza semplice con modalità demandate alle categorie;
– la sottoscrizione formale dell’accordo, come descritta, costituirà l’atto vincolante per le parti;
– il rispetto delle procedure comporta l’applicazione degli accordi ai lavoratori e la piena esigibilità per tutte le organizzazioni aderenti alle parti firmatarie. Conseguentemente, le parti firmatarie impegnano a dare piena applicazione e a non promuovere iniziative di contrasto con gli accordi stipulati.
Questi sono i contenuti del protocollo: non ci sono altre clausole o condizioni e valgono ancora le regole dell’accordo del 1993. La gestione degli impegni sindacali sarà messo in capo alle federazioni di categoria, che ricevono un’esortazione e un’indicazione per l’applicazione, ma non di più.
Ne sono prova, ad esempio, l’ impegno a costituire le RSU e a non costituire le RSA; in presenza di RSU e RSA il passaggio alle RSU avverrà solo se definito unitariamente dalle federazioni aderenti alle centrali; le federazioni di categoria per ogni CCNL decideranno le modalità di definizione delle piattaforme e della delegazione trattante; le organizzazioni sindacali favoriranno, in ogni categoria, la presentazione di piattaforme unitarie.
Da notare ancora due passi importanti.
A) Confindustria, Cgil, Cisl e Uil si impegnano a rendere coerenti le regole dell’accordo interconfederale del dicembre 1993, con i suddetti principi, anche con riferimento all’esercizio dei diritti sindacali e, segnatamente, con quelli in tema di diritto di assemblea in capo alle Organizzazioni sindacali firmatarie della presente intesa, di titolarità della contrattazione di secondo livello e di diritto di voto per l’insieme dei lavoratori dipendenti.
B) In assenza di piattaforma unitaria, la parte datoriale favorirà, in ogni categoria, che la negoziazione si avvii sulla base della piattaforma presentata da organizzazioni sindacali che abbiano complessivamente un livello di rappresentatività nel settore, pari almeno al 50% +1.
L’iniziativa sindacale, quando è unitaria e cerca di fare assumere impegni al governo, per cambiare le cose nel nostro paese e dare risposte a lavoratori e cittadini, è sempre meritoria.
La manifestazione unitaria del 22 giugno a Roma è importante.
Dobbiamo però leggere l’accordo di questi giorni in modo oggettivo, senza trionfalismi, per capire cosa è risolto e cosa rimane da risolvere.
L’accordo riguarda solo Confindustria e le aziende ad essa associate (come si sa la Fiat è fuori e questo è già un grosso problema): questo vuol dire una minoranza di lavoratori dipendenti, rispetto alla totalità.
Bisognerà fare, e certamente i sindacati lo faranno, accordi analoghi per le altre datoriali (banche, commercio, artigiani, PMI, aziende locali, cooperative, trasporti, servizi e così via).
L’accordo fatto riguarda solamente i CCNL; è vero che c’è la norma riportata sopra, a pagina sette, punto A), ma si parla solo di titolarità della contrattazione di secondo livello.
A proposito, che senso ha premiare e detassare lo straordinario in una fase di recessione e di disoccupazione… Abbiamo troppi scienziati che non emigrano! Non è meglio usare quelle risorse ad es. sui contratti di solidarietà per difendere l’occupazione o comunque per misure per promuovere lavoro?
Confermata la centralità del contratto collettivo nazionale di lavoro, bisognerà riportare ai livelli decentrati i contenuti dell’accordo centrale e non sarà semplice.
La stessa difficoltà si potrà intravedere nella volontà di applicare l’intesa, nelle resistenze, nei tempi biblici di realizzazione.
Le nuove regole impongono più fatica e un cambio di cultura assieme ai lavoratori.
Se le RSA dovevano essere superate a partire dal 1993 e nel 2013 ritroviamo una norma che prevede che non saranno più rinnovate, vuol dire che oggi con le trasformazioni repentine in tutto il mondo del lavoro, i vent’anni delle RSA sono un lasso di tempo assolutamente fuori ragione.
Se poi i problemi sono politici e quindi non si cambia, allora la musica è diversa e bisognerà vedere, nonostante il dramma che vive il mondo del lavoro, quale grado di camaleontismo sopravvive nei sindacati italiani.
Un ultimo aspetto, in questa prima ed affrettata valutazione dell’intesa: come riuscire a far entrare i 10 milioni di lavoratori delle imprese sotto i 19 dipendenti, la metà di tutti i dipendenti, nel sistema della rappresentanza, rappresentatività, democrazia anche per i CCNL di chi rappresenta quella metà del mondo del lavoro dipendente.
Un conto è avere un contratto nazionale ed un conto è non averlo. Nel primo caso i diritti e le tutele ci sono ed al peggio ci si potrà rivalere con vertenze o azioni legali, a differenza che nel secondo. Andranno previste soluzioni particolari per queste imprese, dove non esistono RSU e probabilmente neppure le deleghe sindacali.
Su questo aspetto delle deleghe va fatto osservare come, in un momento di crisi, di recessione, con licenziamenti e cassa integrazione, non mancano i datori di lavoro che tornano a culture e metodi autoritari e repressivi, che sicuramente scoraggeranno i lavoratori dalla pratica della delega sindacale.