C’è un certo scetticismo nei confronti di quella parte di Confindustria, costituita soprattutto dalle imprese di maggiore successo, che propone modifiche nel modello di business. A loro dire, la massimizzazione del profitto non funziona più: occorre aprirsi agli altri stakeholder, lavoratori e fornitori, bisogna tener maggior conto della sostenibilità ambientale e, di fronte ai cambiamenti che si prospettano, occorre realizzare nuove forme di partnership tra pubblico e privato.
A dire il vero c’è sempre stata nel nostro capitalismo industriale una presenza, per quanto minoritaria, di “imprenditoria illuminata” tendente a trovare un equilibrio tra profitto e solidarietà sociale. Il pensiero va ad Adriano Olivetti.
Ma sono sempre mancate le condizioni per cambiare qualcosa nei rapporti sociali nelle fabbriche, del tipo di quelle sperimentate nell’Europa del Nord: l’egemonia cultuale del Partito Comunista tra i lavoratori, modelli produttivi ed organizzativi basati sull’intensificazione dei ritmi di lavoro, un pluralismo sindacale conflittuale. Tutto ciò è stato ammortizzato, almeno fino agli inizi degli anni ’80, da tassi di crescita del reddito e dell’occupazione che, favorendo una crescita generalizzata del benessere sociale grazie anche allo sviluppo del welfare di Stato, hanno consentito la tenuta dei rapporti sociali, sia nelle fabbriche che nella società.
È a partire dagli anni successivi con il rallentamento dei tassi di crescita, accompagnato da squilibri crescenti nella finanza pubblica, che la condizione operaia inizia a peggiorare rompendo l’equilibrio fra lavoro e capitale, in coincidenza con una perdita di competitività del sistema produttivo. E ciò avvenne nonostante la contemporanea rivoluzione tecnologico-digitale che, contrariamente a tutte le aspettative, non produsse l’incentivazione produttivistica attesa. Non fu solo un problema italiano, tanto che il premio Nobel Robert Solow scrisse sul New York Times nel 1987 che “il computer è dappertutto tranne che nelle statistiche della produttività”. Bisognerà aspettare un certo tempo per veder nascere una cultura imprenditoriale e gestionale in grado di produrre i risultati produttivistici attese da tale innovazione. In Italia le cose andarono diversamente perché i benefici del computer si concretizzarono solo nella parte più dinamica del settore industriale esposto alla concorrenza internazionale mentre il resto dell’economia, soprattutto nella sua componente pubblica, rimase imbrigliato nelle sue storiche inefficienze. Da qui il prolungarsi di una stagione di bassa produttività e di bassi salari non ancora conclusa.
Ora siamo alla soglia di una nuova e più invasiva fase di evoluzione tecnologica, quella della robotica e dell’intelligenza artificiale, destinata a rivoluzionare i processi produttivi dell’intero sistema economico. Un nuovo hi-tech in grado di cambiare la fisionomia dell’attuale sistema capitalistico, sia nell’ambito delle produzioni di mercato che dei servizi pubblici. Il Paese saprà cogliere questa opportunità per riprendere la strada della crescita economica e di un benessere diffuso?
Se ancora una volta gli effetti produttivistici delle nuove tecnologie si otterranno solo nelle imprese industriali più dinamiche, automatizzando attività precedentemente eseguite dai lavoratori, ci troveremo – a distanza di anni – a rimpiangere una nuova occasione perduta.
Ecco perché è importante il ruolo di apripista dell’imprenditoria confindustriale, più consapevole dei gravosi problemi che l’applicazione delle nuove tecnologie comporta sul piano delle politiche del lavoro, fiscali, dell’efficientamento della Pubblica Amministrazione. Un impegno che deve essere condiviso dagli altri attori dello sviluppo: sindacati, enti locali, università, centri di ricerca, perché ci sono benefici di grande portata legati allo sviluppo di nuove attività industriali tecnologicamente avanzate e al potenziamento dei servizi sanitari, dell’istruzione, della mobilità e altro, resi possibili dalla raccolta e dall’elaborazione in tempo reale dei dati da parte dei sistemi di intelligenza artificiale. Un patto degli “innovatori”, una “élite” d’avanguardia che governi questa fase di evoluzione tecnologica per evitare di essere governati dalle privative che oggi ne regolano l’accesso.
E per quanto riguarda il lavoro, il nervo scoperto di questa fase di evoluzione tecnologica, c’è bisogno di un contenimento delle distorsioni, a danno del lavoro, indotte dalla tassazione e di un welfare finalizzato alla riqualificazione e ricollocazione dei lavoratori e alla formazione delle nuove leve.