Soltanto una botta di pazzia collettiva della maggioranza parlamentare impedirà che venga approvata la legge di stabilità presentata dal Governo. Al suo interno, durante il dibattito parlamentare, vi saranno modifiche più o meno vistose di quanto proposto, su questioni più o meno rilevanti. Ma l’impianto complessivo dovrebbe avere il semaforo verde entro la fine dell’anno e subito dopo ottenere la benedizione di Bruxelles. Ci sarà risparmiata la pantomima dell’anno scorso dell’aggiustamento da 2,4% del rapporto deficit/pil, al 2,04%. Il pugno battuto sul tavolo di un governo dalla voce grossa ma dal braccio debole, fece fare bella figura alla Commissione europea che, tra l’altro, era già con gli scatoloni in mano, per scadenza del mandato.
Quest’anno il Governo giallo-rosso, subentrato a quello giallo-verde ma sempre con lo stesso Presidente del Consiglio ha condotto con più compostezza e competenza la costruzione del mosaico finanziario. Ma anche con qualche scenografica ingenuità, avendo favorito l’idea che si sarebbe passato dalla notte (dell’anno scorso) al giorno, in fatto di redistribuzione della ricchezza e di soddisfazione di infiniti desideri ed anche parecchi diritti. Quando già si parte con una zavorra di 23 miliardi di euro da accantonare per non rimodulare l’IVA (condizione principale per non andare alle elezioni anticipate, come avrebbe desiderato Salvini aprendo la crisi del governo di cui era deus ex machina), prudenza avrebbe dovuto suggerire che non si straparlasse.
A disposizione non c’erano che 6/7 miliardi, per di più a debito. Eppure, c’è stata una sarabanda di proposte che si è accumulata sul tavolo del ministro dell’Economia e che nel giro di qualche settimana è finita in larga parte nel cestino, posto accanto alla storica scrivania di Quintino Sella. Lo sapevano tutti che l’imbuto era stretto stretto, ma hanno continuato a versare richieste su richieste. Ciascuna legittima, molte sensate, troppe costose. La sintesi ne ha risentito. Il tabù inviolabile della sterilizzazione dell’IVA sovrasta il resto della costruzione dei conti previsti per il 2020. Un diligente e paziente “taglia e cuci” delle pretese ha mantenuto ampio il ventaglio degli interventi (fin troppo ampio, a scapito della loro efficacia), ha confermato il grosso di quelli della precedente legge (reddito di cittadinanza e quota 100 che potevano essere almeno attenuati), ha assicurato un decente criterio redistributivo, con la lotta all’evasione e interventi a favore delle fasce più disagiate delle famiglie e delle persone.
Quanto alla sua funzione anticiclica, c’è poco da dire e predire. Non sarà certamente l’Italia a determinare il futuro prossimo della congiuntura mondiale. La legge di stabilità tende a non far peggiorare produzione e consumi, a dare un po’ di respiro al Mezzogiorno e al lavoro. Per capire se può contribuire a non farci andare in recessione, bisogna guardare soprattutto alla legge di stabilità della Germania. Se sarà espansiva e possibilmente molto “green”, come alcuni membri del Governo tedesco hanno dichiarato, i suoi effetti si faranno sentire anche in Italia e le misure prese con la nostra legge di stabilità potranno dare maggiore certezza agli investitori e alle imprese.
Chi spara contro questa manovra, evidentemente è abituato a prendere di mira la croce rossa. Vecchia prassi che contagia sia la maggioranza che l’opposizione di Governo. E’ l’abitudine a far prevalere sempre l’identità dell’individuo e del gruppo di appartenenza, sulla dignità delle persone e della comunità. La prima ha il suo fulcro generativo nell’”io”, la seconda nel “noi”. In economia, è come se si ritornasse ad Adam Smith e si affossasse John Maynard Keynes. In politica, è come se si andasse più indietro nel tempo: al cesarismo, alla democrazia autoritaria, mandando in soffitta la democrazia rappresentativa e partecipata. Nel sociale, ancora più pesantemente, è come ci si rifugiasse nel corporativismo, abbandonando ogni ruolo generale di rappresentanza da parte dei corpi intermedi, sindacato confederale in testa.
Eppure, ci sono molti campanelli d’allarme che stanno alzando il loro timbro, a favore di visioni meno anguste. Alcuni vengono da lontano, dal Cile, dal Libano, da Hong Kong. Dall’Amazzonia, dai frydays for future, dal Kurdistan. Rivendicano libertà, partecipazione, uguaglianza e soprattutto decisioni epocali. Sono valori indelebili; non sono espressione di interessi specifici. Altri ci giungono da più vicino: la denatalità, la ricomposizione del mondo del lavoro, l’integrazione multietnica, la cultura come motore del progresso sono tra le questioni più cruciali per la coesione sociale italiana. Tutte questioni che attengono al “noi” e non certo all’”io”, per essere risolte con soddisfazione di tutti.
La lunga stagione dell’individualismo mostra la corda, come ci ricorda Magatti (Il futuro della politica è investire sulla persona, Corriere della sera, 22/10/2019). Ma non arretra ancora a sufficienza per lasciare lo spazio al solidarismo. Sia sul piano sociale, che economico, che politico. E la confezione della legge di stabilità ne è plastica rappresentazione. Si vorrebbero correggere le storture dell’assetto sociale ma si fa fatica a procedere in modo profondamente riformistico. Spesso il risultato è a somma zero. La sensazione è che i soggetti politici non ce la fanno a guardare lontano, a graduare gli interventi sulla base di una progettualità socialmente apprezzabile. Sembrano in preda ad un continuo congiunturalismo corporativo ed elettorale che tutto condiziona e molto pregiudica (Sabino Cassese, La decadenza ignorata e il vuoto di idee dei partiti, Corriere della sera 23/10/2019).
Non resta che sperare che dalla società civile giungano segnali di più energica svolta. Che le forze sociali non si limitino ad esprimere legittime richieste dei propri rappresentati ma si facciano carico anche delle esigenze più generali. Si stanno svolgendo molte commemorazioni del 50esimo dell’”autunno caldo” del 1969. Molti mettono l’accento sulla specificità di quel momento in cui studenti ma soprattutto giovani operai comuni misero in discussione assetti di studio, di lavoro e di potere consolidati ma obsoleti. Quasi a voler blindare quella stagione nella storia.
A mio avviso, invece, dice molto anche a questa fase storica. Innanzitutto che senza una mobilitazione sociale realmente riformistica, l’egemonia della politica l’assume soltanto la parte più conservatrice ed autoritaria della società. Lo stiamo sperimentando in modo inequivocabile. In secondo luogo, senza un’alleanza convinta tra i più deboli socialmente e i ceti medi più organizzati, ogni ipotesi redistributiva sbattere contro il muro delle diverse convenienze in contrapposizione. In terzo luogo, senza il prevalere di prospettive di medio e lungo periodo dello sviluppo della coesione sociale, gli interessi precostituiti avranno facile gioco a ricondurre ogni discussione alle esigenze del momento, frantumando le aspettative più impegnative.
Per questo c’è da augurarsi che questa legge di stabilità non sia rappresentata come una svolta progressista, il meglio che ci si potesse attendere; ma come la presa di coscienza che occorre pensare in grande, che l’intervento della società civile organizzata imponga visioni più proiettate verso il futuro, che le forze politiche non si facciano megafono dell’individualismo ma si aprano al solidarismo, più di quanto hanno fatto finora.