Prima della Riforma – Da settimane si discute della riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità (noto anche come MES e in inglese ESM). Si tratta di quello che è più noto come Fondo Salva Stati, cioè del fondo finanziario europeo per la stabilità finanziaria della zona euro, che ha lo scopo di aiutare i paesi che si trovano in difficoltà economica. Il MES venne creato nel settembre del 2012 e portò al superamento di altri due fondi creati in precedenza allo stesso scopo (EFSF ed EFSM) per salvare dall’insolvenza Portogallo e Irlanda, investiti dalla crisi economico-finanziaria.
A questo scopo il MES, il Meccanismo Europeo di Stabilità è un’organizzazione intergovernativa dei paesi che condividono l’euro come moneta; nell’unione monetaria serve per raccogliere i fondi necessari per fornire accesso immediato ai programmi di assistenza finanziaria per gli Stati membri della zona euro in difficoltà finanziaria: il presupposto è che se uno stato membro è in difficoltà, queste possono avere conseguenze anche sugli altri. D’altra parte si tratta di fondi finanziati dai singoli stati.
Il MES ha una dotazione di 80 miliardi di euro di capitale versato, pagati in maniera proporzionale alle dimensioni economiche dei paesi dell’eurozona: la Germania è il primo contributore con quasi il 27 per cento del capitale; il secondo contributore è la Francia con il 20%, l’Italia con circa il 18%, la Spagna con il 12% e via via gli altri. Inoltre, emettendo titoli con la garanzia degli stati che ne fanno parte, il MES può raccogliere sui mercati finanziari fino a 700 miliardi di euro. Questi soldi possono essere prestati agli stati in difficoltà, per esempio anche per ricapitalizzare i loro sistemi bancari. Gli stati che hanno accesso al MES, se rispettano alcune condizioni, possono ricevere anche l’aiuto illimitato da parte della BCE nella forma delle OMT, le operazioni definitive monetarie, l’acquisto diretto senza limiti da parte della BCE di titoli di stato a breve termine emessi da paesi in difficoltà macroeconomica grave e conclamata. Per salvaguardare la liquidità dei titoli pubblici di un paese in crisi, la BCE li avrebbe acquistati sul mercato secondario senza alcun limite prefissato, a condizione che il paese aderisca a un programma di assistenza finanziaria. L’intervento è condizionato perché con quest’operazione la Banca centrale elimina di fatto il rischio di credito dei debiti creati non da un’autorità politica centrale, ma dai diversi partecipanti all’euro.
Nel Fondo Salva Stati, per ricevere l’aiuto, uno stato doveva accettare un piano di riforme la cui applicazione era sorvegliata dalla “Troika”, il comitato costituito da Commissione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale. Erano previste misure anche molto impopolari, come taglio alla spesa pubblica, privatizzazioni, liberalizzazioni e interventi sul diritto del lavoro, nell’ottica di quell’austerity che avrebbe dovuto recuperare la sostenibilità dei conti pubblici. Questo è quanto è avvenuto per i paesi che hanno usufruito di programmi di aiuto del MES ( fino ad oggi Grecia, Cipro, Portogallo e Irlanda).
La Riforma prevista
Il Meccanismo Europeo di Stabilità, in sostanza, riduce l’incertezza sul mercato finanziario circa la solvibilità dei singoli paesi e del sistema complessivo, contenendo, dunque, il premio al rischio generale e di quello dei titoli specifici. Il MES è infatti un’istituzione che presta denaro a chi non riesce più a ricevere prestiti e somiglia, dunque, a un prestatore di ultima istanza. Il meccanismo, attraverso risorse rese disponibili da singoli paesi (versate o su cui si dà garanzia), è predisposto per risolvere situazioni molto difficili. Lo si può legittimamente pensare come una ciambella di salvataggio. E’ necessario che ci sia. Se l’Italia pensasse di stare fuori dal MES, non potrebbe accedere nemmeno all’aiuto della BCE; verrebbe immediatamente percepita come paese più a rischio.
Il problema del Fondo Salva Stato sta nelle politiche che vengono richieste per attivare l’aiuto. Esse da un lato vengono criticate perché troppo dure e in alcuni casi controproducenti. Dall’altro i paesi più solidi, Germania e Nord Europa, temono che aver comunque accesso ad un prestatore, che mette soldi propri, porti ad un allentamento insopportabile del rigore della finanza pubblica. Al di là del contenuto tecnico delle previsioni, naturalmente fa molta differenza se il contesto di politica economica è quello di una politica fiscale dell’area euro più espansiva con il sostegno degli investimenti, rispetto ad una situazione segnata dall’austerità generalizzata.
A giugno 2019 prima l’Eurogruppo, dove siedono i ministri dell’Economia della zona euro, e poi il Consiglio europeo, dove partecipano i capi di stato e di governo e il presidente della commissione Ue, hanno varato una revisione delle regole del MES. Manca l’approvazione definitiva del testo in un’ultima sessione dei capi di governo, da tenersi a dicembre, e poi la ratifica da parte dei Parlamenti nazionali.
Con la riforma i paesi che vorranno accedere agli aiuti, cioè a una linea di credito precauzionale, lo potranno fare, firmando una lettera di intenti, senza dettagliare le riforme da adottare solo se in regola con i parametri di Maastricht, tra cui il 60% nel rapporto debito PIL. Dei 19 paesi dell’area Euro, solo dieci, sarebbero in tale condizione. Gli altri, tra cui l’Italia, non avrebbero tale opportunità. Dovrebbero predefinire le riforme che si impegnano a varare. L’ex Ministro Tria ha detto che nel corso della trattativa i paesi del Nord Europa volevano che in caso di richiesta da parte di uno Stato di un intervento di sostegno venissero predefinite regole di ristrutturazione dei debiti sovrani, cioè regole per la riduzione e la ristrutturazione del debito; questo avrebbe significato che in caso di richiesta di accesso al sostegno si sarebbe dovuto automaticamente fissare la riduzione del valore dei titoli da rimborsare e / o il posponimento del rimborso. E’ questa la possibilità confusamente richiamata nel dibattito politico quando si dice “mettere le mani nei conti correnti degli italiani”. In realtà i conti correnti non c’entrano; si parla dei dei titoli pubblici. Il passato Governo si è opposto a tale previsione: anche solo l’esistenza di quest’eventualità avrebbe determinato un innalzamento, anche non in situazione di crisi, del premio al rischio, cioè avrebbe determinato un innalzamento degli interessi da pagare sui titoli pubblici italiani e dei paesi più deboli. La ristrutturazione automatica del debito non è passata, ma per i nove paesi più in ritardo rispetto a Maastricht, comunque non vi è un vantaggio rispetto alla situazione precedente. I programmi di aggiustamento potrebbero essere simili o anche a impatto più forte di quelli negoziati dalla Troika.
Una seconda questione riguarda la guida della gestione delle crisi. In precedenza essa era in capo alla Commissione, istituzione politica fondata sul principio della rappresentatività di tutti i Paesi, e che quindi agisce sulla base del compromesso tra i diversi interessi nazionali; con la riforma pare avere un ruolo prevalente lo stesso MES. E’ vero viene superato il ruolo del Fondo Monetario Internazionale e della BCE. Il MES, però, è un organismo tecnico, con potere decisionale autonomo e che risponde direttamente ai governi che lo hanno istituito; ad esso viene riconosciuta e garantita indipendenza e autonomia decisionale nel valutare la capacità dello stato che chiede il sostegno di ripagare il debito. La Commissione è coinvolta, ma manterrebbe secondo molti un ruolo più marginale. E’ questo che ha fatto pensare ad una costruzione troppo meccanica e artificiale, che, mettendo in scacco la politica, paralizza la sovranità economica degli stati e dei loro governi. La decisione di prestare assistenza ad uno Stato che lo chiede richiede, secondo il modello intergovernativo, l’unanimità degli organi del MES e, comunque, necessita in procedura d’urgenza, sulla base dell’ opportunità sollecitata dalla Commissione, una maggioranza qualificata dell’85%; questo dà di fatto potere di veto ai paesi maggiori. Lo stesso organigramma attuale del MES, composto da persone tutte provenienti da paesi forti, fa pensare a una minima considerazione delle esigenze degli altri paesi. E’ vero, però, che tra poco scade il mandato del presidente del MES, Klaus Regling, economista tedesco, ex direttore degli affari economici dell’Unione. Si potrebbero candidare personalità di alto profilo anche a livello europeo, per essere certi che nessuno abusi del meccanismo, enfatizzandone gli elementi di automatismo e ponendolo in un ruolo prevalente rispetto alla Commissione.
Nella riforma del MES sembra affermarsi il principio secondo cui l’assistenza finanziaria venga erogata solo ai paesi i cui debiti, sulla base delle valutazioni proprie dell’organismo, sono giudicati sostenibili. Se non lo sono devono essere preventivamente ristrutturati. La previsione più problematica della Riforma, sottolineata dallo stesso Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, ma anche da vari esperti italiani ( Galli, Cottarelli) è data dalla semplificazione delle procedure per la ristrutturazione del debito, in questo caso volontaria, e non obbligatoria, da parte dello Stato. Tale possibilità viene rafforzata con l’introduzione nel 2022 delle clausole di azione collettiva per la ristrutturazione del debito pubblico fatta con un solo voto dei creditori al posto delle procedure complesse oggi previste. Per l’attuale Ministro dell’Economia Gualtieri si tratta di un cambiamento noto da tempo, che non dovrebbe avere alcun impatto sul debito pubblico dei paesi dell’eurozona, e che anzi impedisce comportamenti opportunistici e ricattatori da parte di fondi speculativi. Altri, come Giampaolo Galli, rilevano che la semplificazione nei meccanismi di definizione rende di per sè più probabile una riduzione concordata del valore del prestito fatto allo stato; dunque, i risparmiatori vorranno cautelarsi chiedendo interessi più elevati ai Paesi considerati meno solidi, come l’Italia. Questo aumenterebbe gli spread tra paesi forti e meno forti e farebbe salire il costo del debito pubblico, innescando un possibile circolo vizioso.
La Riforma del MES prevede modifiche che rendono più solido il sistema bancario europeo. Le banche della zona euro potranno finanziare con 55 miliardi di euro il Fondo di risoluzione unico per aiutare gli istituti di credito in difficoltà, determinando una rete di salvataggio (backstop) pari all’1% dei depositi garantiti; il MES può intervenire a supporto nel caso in cui il Fondo di risoluzione unico dovesse finire le sue risorse. Si parla degli istituti di credito della periferia d’Europa ma anche di una grande banca tedesca. Una parte delle polemiche verte proprio sul fatto che la Germania e i paesi forti avrebbero solo vantaggi dalla Riforma del MES senza nessuna contropartita. Finora l’Italia ha fatto tutto da sola, con interventi dello stesso sistema bancario, valutati dall’ABI in 12,5 miliardi di euro, o ricapitalizzazione pubblica; la Commissione UE a suo tempo si era opposta per interventi di salvataggio di nostri piccoli istituti con ricorso al Tribunale Europeo e, avendo questo dato ragione agli italiani, alla Corte di Giustizia. Ora la Commissione appare più disponibile a questa strada e c’è chi vede una connessione alle attuali problematiche di un grande istituto tedesco. Bene la conversione. Meglio tardi che mai. La misura effettivamente consentirà una gestione più efficace delle crisi bancarie, e senza condizioni a carico dei paesi interessati. Anche per l’Italia è una misura positiva, che da tempo avevamo richiesto e che costituisce un nuovo tassello verso il completamento dell’Unione bancaria.
Conclusioni
L’Italia non può uscire dal MES, non le conviene. Gli altri Stati possono fare l’accordo senza di noi e questo ci renderebbe più deboli, perché senza reti di salvataggio. Saremmo più esposti e, anche in una situazione “tranquilla”, pagheremmo con una crescita dei differenziali di costo sul nostro debito pubblico e forse con l’uscita dall’Euro.
E’ vero che la Riforma del MES andrebbe vista in un quadro più vasto di accordo di politica economica. La nuova Commissione Europea deve dare forza e concretezza con risorse proprie e rilevanti alla strategia del Green New Deal, che ha posto al centro della sua azione. Anche la quota di finanziamenti nazionali di un piano straordinario di investimenti pubblici e privati deve avere un un trattamento diverso rispetto a oggi per il calcolo del deficit strutturale. Questo darebbe la differenza tra una gestione macroeconomica tendenzialmente recessiva e una di sviluppo aperta alle sfide del miglioramento del benessere, dell’innovazione tecnologica, della sostenibilità sociale e ambientale. Il negoziato europeo deve essere più ampio e la Riforma del MES va vista in questo ambito.
Questo naturalmente non esclude la possibilità e la necessità di rivedere i punti problematici della Riforma e gestire adeguatamente l’accordo anche con le nomine giuste; avendo in mente l’obiettivo, che deve essere quello di fare “whatever it takes”, tutto quello che è necessario, per il mantenimento di un’Unione Europea realisticamente solidale.
Roma, 3/12/2019