Globalizzazione e progresso tecnologico imprimono mutamenti vasti e profondi al mercato del lavoro. Cambiamenti che ci pongono di fronte al bisogno di aggiornare le nostre lenti interpretative e i nostri strumenti di tutela. L’occupazione è cambiata nella struttura e nella qualità. E presenta quattro grandi criticità: innalzamento della precarizzazione e della disoccupazione giovanile; invecchiamento demografico; aumento dei divari tra Nord e Sud e polarizzazione delle competenze.
Le condizioni reali sono molto peggiori rispetto ai dati pre-crisi. Le ore lavorate sono sotto di quasi 600 milioni di unità. E la composizione del lavoro presenta una fisionomia “a clessidra”: cresce la popolazione delle basse qualifiche e, contemporaneamente, anche la domanda insoddisfatta di competenze. Abbiamo 5 milioni di lavoratori poveri e 400 mila i posti vacanti di fascia alta.
Questo ci impone un doppio fronte: da un lato costruire nuove tutele e assicurare il più ampio accesso alle nuove competenze abilitanti; dall’altro cogliere le opportunità che ci provengono da relazioni industriali sempre più partecipative, con interazioni contrattuali e bilaterali sfidanti, intense, sempre più vicine alla persona.
Digitalizzazione, automazione, robotica, intelligenza artificiale, vanno accompagnate con potenti investimenti sul capitale umano per sostenere i diritti di cittadinanza al mercato del lavoro. Per questo occorre mettere occupabilità e aggiornamento professionale al centro della nostra strategia sociale e istituzionale. Dobbiamo costruire tutele portatili, reti pubbliche e sussidiarie che tutelino le transizioni, assicurare a tutti il diritto soggettivo alla formazione.
È la formazione la chiave di volta dell’odierno ecosistema-lavoro. L’apprendimento deve esprimersi come filiera, come rete integrata che unisca i percorsi rivolti ai giovanissimi e quelli dedicati agli adulti, passando per l’alternanza, l’apprendistato, l’aggiornamento continuo sul lavoro. Un network complesso e connesso, formato da soggetti diversi, pubblici e privati, istituzionali e bilaterali, che devono collaborare secondo una logica proattiva e organica.
Un sistema che deve essere sostenuto da politiche attive efficaci, leve di superammortamento per gli investimenti sulla formazione, sinergie sui territori tra imprese, università e agenzie educative, Istituti Tecnici Superiori. E poi piani formativi finanziati dai Fondi Interprofessionali che incrociano anche la programmazione delle Regioni.
C’è stato un tempo in cui l’adozione di una nuova tecnologia imponeva a tutti un adeguamento indifferenziato. Oggi invece si richiedono evoluzioni articolate e “su misura” rispetto ai bisogni della singola comunità lavorativa. L’esercizio contrattuale e l’incontro bilaterale possono dare un contributo formidabile a questo scopo. Per questo abbiamo bisogno di estendere gli accordi decentrati, specialmente nelle piccole e medie imprese, specialmente nel Mezzogiorno, dove il tessuto produttivo è più frammentato.
Una soluzione va cercata nella dimensione territoriale dell’esercizio contrattuale e bilaterale. Ma lo sforzo deve arrivare anche da adeguate politiche fiscali, con la totale defiscalizzazione dei frutti economici e di welfare generati dalla negoziazione decentrata.
Lo scambio di prossimità va sostenuto, e non scoraggiato con interventi normativi che entrano a gamba tesa in materie contrattuali. L’adattività della contrattazione decentrata, e l’esigenza di flessibilità che invoca il Paese, si coniugano molto male con misure rigide e precettive. Penso al “Decreto Dignità”, di cui chiediamo la modifica con un forte affidamento alla contrattazione decentrata sulle causali per i tempi determinati. E penso alla bandiera sbagliata del salario orario minimo legale.
Nel nostro Paese c’è una questione salariale da affrontare con la massima serietà, e senza slogan ideologici. Maper elevare le tutele non serve né un orario né un salario “di Stato”: occorre invece una lotta senza quartiere al dumping negoziale, ai contratti pirata e alle Rappresentanze di comodo.
Bisogna includere milioni di persone nel recinto dei buoni contratti, garantendo salari dignitosi e molte altre tutele che solo quegli accordi possono dare.Se c’è un percorso da costruire, deve portare a individuare in ogni settore un contratto leader a cui dare valore erga omnes.
Va stabilito quali siano i soggetti sociali maggiormente rappresentativi, agevolando l’attuazione delle intese pattizie che abbiamo siglato in questi anni sulla misurazione e la certificazione della rappresentanza, che deve coinvolgere anche le organizzazioni datoriali.
Serve uno sforzo comune per definire i perimetri della contrattazione. Deve esserci coerenza tra contratto applicato e attività effettivamente svolta dalla impresa. I working poors infatti sono stretti da una morsa fatta anche da forme apparentemente legali: sono spesso inquadrati in maniera incoerente rispetto alle mansioni, o incastrati nelle finte partite Iva o nel part-time involontario.
Il problema di questi lavoratori non è la paga oraria, ma i controlli che non si fanno, i contratti che non si applicano, gli orari che non vengono rispettati. E poi c’è la madre di tutte le battaglie: quella di un alleggerimento fiscale che rilanci i salari medi e popolari, incidendo sì sul cuneo fiscale, ma anche rimodulando le prime aliquote dell’Irpef.
Su questi temi, ci aspettiamo un’apertura al confronto tra Governo e parti sociali per una governance che tenga insieme crescita e sviluppo, investimenti e occupazione, salari e produttività, che metta al centro la persona, i suoi bisogni, la sua capacità di partecipare, attraverso il lavoro, al processo di rilancio economico, sociale e produttivo del nostro Paese.
*Segretario generale aggiunto CISL