Tra dicembre scorso e gennaio di quest’anno, tre eventi di diversa natura hanno riguardato il complesso problema del clima e del destino della Terra. Il primo è stata la Conferenza mondiale dell’ONU Cop25 a Madrid (2 -13 dicembre 2019) nella quale i Paesi partecipanti non hanno trovato un’intesa sui tagli ai fattori inquinanti. Il secondo si è svolto a Davos, con il tradizionale Word Economic Forum (21-24 gennaio 2020) nel quale alta finanza, managers di grandi imprese, studiosi, governanti, politici e rappresentanti di movimenti d’opinione si sono confrontati e scontrati sugli effetti economici dei cambiamenti climatici. Il terzo, ad Assisi è stato presentato, sullo stesso tema, un Manifesto (24 gennaio 2020) sottoscritto da personalità italiane del mondo delle imprese, della Chiesa, della politica, della cultura, del sindacato.
Questi eventi hanno in comune una preoccupazione crescente, una indubitabile volontà di impegno, ma ancora una palese distanza tra il dire e il fare. Più se ne discute, più emerge la complessità delle misure necessarie per cambiare passo alla qualità dello sviluppo delle economie di tutto il mondo e più viene al pettine la necessità che ci siano forti assunzioni di responsabilità individuali e collettive. Certo, non si può dire che non si stia muovendo nulla. Gli investimenti globali socialmente responsabili sono cresciuti tra il 2016 e il 2018 del 34%. Toccano i 31000 miliardi di dollari (dati del GSIA, l’associazione internazionale della finanza sostenibile). I green bond sia pubblici che privati hanno avuto una crescita esponenziale tra il 2011 e il 2019, passando da quasi zero a circa 180 miliardi di euro (dati Bloomberg, Commerzebank). La nuova Commissione Europea prevede di investire 1000 miliardi in 10 anni. Tutto ciò, per dire che se si vuole agire, i finanziamenti non rappresentano una difficoltà insormontabile.
Ma a confronto con la velocità con cui sta cambiando il clima, questo sembra un lento passo da montagna. I negazionisti sono un freno non indifferente e spesso sono collocati in punti nevralgici dei sistemi decisionali. Tramp è un caso di scuola. Ma il vero moloc da smuovere è l’inerzia di quelli che non negano ma pensano che basta qualche cambiamento per mettere la coscienza a posto, ovvero sostengono che è facile imporre un nuovo modello di sostenibilità. Invece, il processo di transizione è straordinariamente complicato. Coinvolge molte variabili sociali ed economiche, necessita di cambi di stili di vita e soprattutto impone di decidere oggi per domani. Esattamente il contrario delle agende dei maggiori decisori privati e pubblici che circolano anche in Italia. Esse sono prevalentemente rivolte alla gestione dell’immediato (aziende guidate sulla base di bilanci trimestrali a cui sono legati i benefits degli amministratori) e del presente (leggi di stabilità ripiegate sulle aspettative di breve periodo, dal fisco al welfare state).
Di questo passo si va soltanto incontro ad emergenze sempre più indomabili, con danni enormi da riparare. Vale per l’Australia, ma anche per l’Italia. Non bastano le manifestazioni dei giovani, i “Friday for future”, gli appelli, le buone pratiche di questa o quella azienda, i divieti alla circolazione delle auto dei sindaci, l’abitudine a non sprecare delle persone. Non bastano interventi settoriali e proclami partitici a dare priorità all’ambiente. Tutti segnali importanti, vitali e da rafforzare. Però, la situazione impone un di più di assunzione di responsabilità per coniugare industrialismo e ambientalismo, per creare la gestione di una transizione da lavori che si abbandonano a lavori che nascono come nuovi, per non mettere le persone le une contro le altre.
Questo sforzo lo possono mettere in campo prevalentemente le grandi organizzazioni di rappresentanza sociale, soprattutto quelle non condizionate da una cultura corporativa. In particolare, da quelle dei lavoratori. Se questi assumessero concretamente la priorità di prefigurare un futuro equilibrio dell’ecosistema, nel quale il loro lavoro non è solamente condannato a scomparire ma anche rivitalizzato e ricreato, la prospettiva di un’accelerazione delle decisioni per frenare l’indesiderabile, sarebbe assicurata.
Il lavoratore ha due frecce al suo arco.
In quanto produttore pienamente inserito nel sistema di sviluppo della sua attività e di quella dell’intero Paese, deve essere protagonista del processo di cambiamento. Quante ILVA nei prossimi anni dovranno essere gestite? Possibile che si debba arrivare alle esasperazioni –alimentate dai vari proprietari che si sono susseguiti dopo l’IRI – che stanno vivendo a Taranto? Siamo certi che i lavoratori hanno fatto sentire fino in fondo il proprio peso a sostegno della innovazione tecnologica a tutela della propria salute e di quella della comunità più prossima allo stabilimento?
Inoltre, quale consumatore, è destinatario di costose campagne di marketing fondate sulla minuziosa osservazione dei suoi comportamenti di acquisto. Una selezione più attenta di prodotti e servizi eco-compatibili sarebbe un atteggiamento potente per piegare aziende sempre e comunque orientate soltanto al profitto.
In definitiva, l’intervento dei lavoratori e del loro sindacato deve spingersi oltre. Meglio se dentro una cornice di iniziativa del sindacalismo europeo. Non può limitarsi ad esprimere soltanto la sua opinione, né ad esercitare una sollecitazione verso altri decisori. Deve giungere ad un pieno utilizzo della sua arma migliore, la contrattazione. In questo momento, ci sono i rinnovi contrattuali di circa 6 milioni di lavoratori. Sarebbe interessante se, tra i prioritari obiettivi da acquisire, ci fosse anche quello di aprire canali partecipativi a livello di azienda o di ente pubblico, per affrontare le implicazioni presenti e future della lotta al degrado climatico, a partire – per esempio – dalla eliminazione del CO2.
Una concreta mobilitazione dei lavoratori italiani – che, nella loro storia, sono stati protagonisti decisivi per far fare investimenti innovativi nelle aziende – potrebbe consentire quel salto di qualità dell’impegno ambientalista, tale da contaminare altri centri di opinione e di potere e tutti assieme realizzare quanto è necessario per non trovarsi di fronte ad emergenze non più dominabili.