C’è una grande insistenza nel dibattito pubblico sulla crescente disuguaglianza nella distribuzione del reddito, che ha portato all’impoverimento della classe media e al declassamento del lavoro. Largamente esplorate le cause, tra le quali si segnala la crescente finanziarizzazione dell’economia, che ha alterato i rapporti di forza tra lavoro e capitale e favorito la rendita nella distribuzione di una ricchezza declinante.
Altrettanto noti gli effetti della diseguale distribuzione del reddito che sottrae risorse materiali e immateriali alla crescita economica, scoraggiando gli investimenti e contraendo i tassi di occupazione.
Occorre anche rilevare che questo ampio dibattito pubblico non ha trovato ancora convergenze nell’individuare politiche efficaci di contrasto alla disuguaglianza, in presenza di mercati sempre più competitivi ed esposti al “dumping sociale” dei paesi emergenti, a cui va aggiunta la difficoltà concettuale di distinguere la “buona disuguaglianza”, alimentata dal merito professionale e dall’impegno individuale, dalla “cattiva disuguaglianza”, creata dalla diseguale distribuzione delle opportunità che emargina la parte più debole della popolazione.
Ma c’è un’altra dimensione della diseguaglianza sociale rispetto alla quale il dibattito pubblico è reticente: la disuguaglianza nella distribuzione del lavoro non è meno distorsiva della diseguaglianza nella distribuzione del reddito.
Il nostro tempo sta vivendo un processo intenso di mutamenti strutturali nei modi di produrre, nei quali l’impiego di nuove tecnologie sta modificando in profondità le dinamiche del mercato del lavoro.
L’occupazione tende a crescere ma la sua distribuzione è sempre più ineguale, nel senso che aumentano le unità di lavoro ma mediamente diminuiscono le ore lavorate e il reddito da lavoro. Il mercato del lavoro si sta sempre più scomponendo tra quanti occupati a tempo pieno che lavorano sempre di più, ricorrendo anche al lavoro straordinario per integrare bassi salari, e quanti vivono la precarietà del lavoro a termine o di altre forme di lavoro parasubordinato. La già tanto discussa contrapposizione tra “insider” e “outsider” si è venuta esasperando sotto la spinta delle nuove tecnologie e lo sviluppo di un terziario “low cost” che richiede mezzi lavori poco pagati.
È venuta meno la profezia – per tutti va citato l’economista Keynes – secondo la quale lo sviluppo economico sostenuto dalla crescita della produttività del lavoro e accompagnato da una strategia di riduzione degli orari di lavoro avrebbe reso possibile mantenere un equilibrio tra domanda e offerta di lavoro.
Profezia che si avverò nel processo iniziale dell’industrializzazione con lo scambio fra maggiore produttività del lavoro e riduzione dell’orario di lavoro che ha diminuito la durata annua del lavoro, passando da 3.000 ore alle 1.600 attuali.
Tale scambio è poi venuto meno, a parte alcune sporadiche esperienze in Francia (le 35 ore) ed in Germania (le 28 ore del recente contratto dei metalmeccanici su base volontaria) che non hanno modificato una tendenza generale: la difesa dell’occupazione, prima gestita soprattutto a livello di azienda modulando il rapporto produttività/orari è ora gestita nel mercato del lavoro con lo sviluppo dei rapporti di lavoro precari.
È quanto avvenuto in Italia dove, in un contesto di bassa crescita economica, la tutela dell’“occupazione stabile” è sostenuta da uno sviluppo anomalo della “occupazione instabile”. Da qui la connotazione di un mercato del lavoro frammentato, professionalmente disperso, a sostegno di un equilibrio economico precario e socialmente disuguale.
Difficile uscire da questo circolo vizioso, e complicata appare anche l’ipotesi di un rilancio della riduzione del lavoro in un’economia in ritardo di competitività e di bassi salari.
Un ruolo attivo, almeno nell’avviare una riflessione su questa iniqua distribuzione del lavoro, dovrebbe essere assunto dai Sindacati, la cui missione storica è quella di tutelare i lavoratori sul posto di lavoro e nel mercato del lavoro:due obiettivi tra loro intrecciati, da ricomporre se vogliono recuperare la loro capacità di rappresentanza del mondo del lavoro.
Una sfida difficile nella nuova economia digitale che porterà sempre più alla disgregazione delle grandi identità collettive da lavoro, favorendo identità lavorative individuali insofferenti nei confronti delle tradizionali forme di rappresentanza dell’età industriale.
È in gioco non solo la legittimità sociale dei Sindacati, ma quella di un Paese la cui ineguale distribuzione del lavoro è causa non secondaria della sua stagnazione economica e dei suoi squilibri sociali, una miscela che produce instabilità anche nel suo sistema politico.