L’Italia, secondo il governo, registrerà a fine anno una caduta del Pil dell’8%, per l’Fmi del 9,1%. È vero che siamo in un drammatico “mal comune”, con l’Europa che perde oltre 7 punti di Pil, ma viene il dubbio se noi avremo la forza di rialzarci.Lucrezia Reichlin, economista e docente alla London Business School, lei che ne pensa?
“Un range tra il 6 e il 9% è realistico. Ci sono due punti di incertezza. Primo, i dati del secondo semestre non ci sono ancora e, secondo, non è chiaro se l’effetto del lockdown sarà temporaneo (nel qual caso ci si può aspettare un rimbalzo nel terzo e quarto trimestre) o permanente. Io mi aspetto che gli effetti negativi saranno molto persistenti”.
Eppure lo sforzo del governo è stato molto forte, tra impegni diretti e garanzie si arriva a 155 miliardi. Gli ammortizzatori sociali sono stati schierati e rifinanziati e l’esecutivo parla di una iniezione di liquidità pari al 40% del Pil.
“Sicuramente il governo ha messo in campo politiche aggressive, ma meno di altri Paesi, in primo luogo la Germania, il che è naturale data la fragilità dei nostri conti pubblici. Ma il problema principale è la messa in opera di queste politiche e il ritardo con cui la liquidità arriva a imprese e famiglie”.
La crisi sta rimettendo lo Stato al centro della politica economica: per evitare fallimenti si parla di un programma che scambi azioni con debito e che farà perno sulla Cdp. Teme uno statalismo di ritorno?
“Non c’è dubbio che si vedrà un maggior peso dello Stato nell’economia. Questo significa cose diverse per le piccole e per le grandi imprese. È auspicabile che, se lo Stato mette equity, si possa anche fare promotore di un processo di consolidamento e di pulizia dei bilanci per le piccole imprese. Nelle grandi lo Stato è già presente, ma il suo peso potrebbe aumentare. Nel medio periodo la sfida sarà giocare una partita di aggregazioni europee. Politicamente è molto difficile e molti sono i temi in gioco, incluso quello della politica della concorrenza e delle regole sugli aiuti di Stato”.
Quello che ci affardella è sempre il debito, la crisi lo sta facendo salire oltre il 155 per cento del Pil. L’agenzia di rating Fitch ci ha appena declassato. Quando finirà l’epidemia, i mercati ci presenteranno il conto?
“Non c’è da star tranquilli. La sostenibilità del debito dipende dalla differenza tra tasso di crescita del Pil e tasso di rifinanziamento. Per il primo, l’Italia deve fare un grande sforzo di rilancio ma sarà difficile affrontare i problemi strutturali della nostra bassa crescita. Per il secondo, il problema è tenere a bada il cosiddetto premio a rischio, cioè quella remunerazione oltre il tasso sicuro che gli investitori chiedono per intraprendere un investimento rischioso. Il premio a rischio relativo a un investimento sul debito italiano dipende innanzitutto dalla nostra stabilità politica e capacità di far ripartire l’economia reale ma anche dall’intervento della Bce. Per ora ci assicura tassi molto bassi fino a fine dell’anno. Poi si vedrà. Dipenderà dal consenso politico che si creerà in Europa a sostenerne l’azione”.
Forse i bilanci dovremo farli a guerra finita, ma se avessimo avuto un debito più basso e una evasione minore oggi non avremmo avuto maggiori margini di azione?
“Non c’è dubbio. Il problema del debito si affronta quando le cose vanno bene proprio per costruire resilienza quando vanno male”.
Si fa un gran discutere sul sostegno dell’Europa all’Italia. Forse, per quanto condito da qualche gaffe, è stato quello di Christine Lagarde l’intervento più sostanzioso. Basterà?
“L’Europa sta facendo molto, anche se non abbastanza. Oltre alla Bce non scordiamoci le misure in campo al livello della regolamentazione (patto di stabilita, aiuti di Stato, banche) ma anche la nuova linea di credito del Mes, le garanzie Bei e il prestito Sure per la disoccupazione. Inoltre sembra ci sia la volontà di costruire un Recovery fund: sarebbe una grande innovazione. Si calcola che questi interventi – escludendo le misure della Bce – dovrebbero superare il trilione. Sarebbe la dimostrazione di una volontà di azione comune del tutto nuova che avrà implicazioni profonde sul governo economico e politico dell’Unione. Aspettiamo comunque di vedere l’accordo finale”.
La partita che si è giocata in questi giorni è quella che va sotto il nome di “eurobond”. In realtà sembra profilarsi un compromesso sul Recovery fund. Pensa che sia una soluzione realistica, o abbiamo perso anche su quel fronte?
“In Italia si è fatta una gran confusione sugli eurobond. Il Recovery fund non è la stessa cosa e francamente ancora non si capisce bene come sarà concepito. Sembra che si tratti di circa 300 miliardi basati su prestiti iniziali che poi saranno restituiti nell’arco di un decennio dagli Stati membri. Il fondo dovrebbe andare a leva e poi essere esborsato in forma di prestiti o doni ma non è chiaro quale sarà la capacità di leva ed è probabile che si tratterà di prestiti più che di doni. Inoltre le modalità di esborso sono ancora da definire. Insomma, non si tratta di una garanzia comune e dei singoli Stati come nel caso degli eurobond. Potrebbe essere un aiuto significativo ma è presto per dirlo”.
Si parla molto delle priorità dell’auspicabile post-epidemia. Alcune linee guida dello sviluppo degli ultimi anni fondate su globalizzazione e politiche di austerità rischiano di essere messe definitivamente da parte. Pensa che sia un bene, un’occasione propizia per cambiare strada?
“La tendenza alla deglobalizzazione era già in atto prima della crisi e continuerà ma non credo che si tornerà indietro in modo radicale. Le nostre economie sono inevitabilmente connesse e tutti i problemi da affrontare, dal clima, alle migrazioni, alla stabilita finanziaria, richiedono cooperazione internazionale. La globalizzazione però va governata e questa sarà la grande sfida. L’Europa può giocare un ruolo importante ma ha bisogno di trovare una voce comune. Per quanto riguarda l’austerità, ora dobbiamo sostenere l’economia e quindi fare il contrario dell’austerità ma il conto prima o poi verrà, soprattutto se non si riesce a rilanciare la crescita”.
Che idea si è fatta di questa crisi, declinata nel linguaggio economico: cigno nero, shock simmetrico, colpo su domanda e offerta, crisi a “V” o a “L”. I virologi spesso tentennano, ma l’economista ha una ricetta chiara?
“Shock simmetrico con effetti asimmetrici, inizialmente di offerta ma con effetti poi di domanda. Non credo in una recessione a “V”, effetti persistenti sulla crescita potenziale sono più probabili. Vedo con una certa soddisfazione che i virologi hanno modelli ancora più imprecisi degli economisti!”.
** Insegnante alla London Business School