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Vincere la sfida della natura alla umanità

In un mondo attraversato da una tempesta magnetica che mette fuori uso tutte le bussole a nostra disposizione fanno tenerezza gli opinionisti che, per criticare l’ultima enciclica di papa Francesco, decantano le virtù del libero mercato con gli argomenti di tre secoli fa, e nelle sue parole colgono – non senza un pregiudizio implicitamente razzista – i segni dell’innato peronismo.

Non solo le armi sono spuntate, infatti: non è ben focalizzato l’obiettivo. Si reagisce alla Fratelli tutti come se fosse la Rerum novarum: ed invece, come ha osservato qualche raro commentatore non superficiale, l’enciclica di Bergoglio avrebbe potuto essere intitolata Sunt lacrimae rerum, il verso di Virgilio che del resto il Papa stesso cita integralmente: e cioè ricordando che, se le cose lacrimano, mentem mortalia tangunt.    

Sono infatti “le cose”, e non una dottrina, a costringere l’umanità ad una riflessione radicale sul proprio futuro: dalla quale non emergerà una precettistica (come in fondo era quella delle encicliche “sociali”), ma un nuovo progetto di società, prima ancora che un nuovo modello economico. Anzi: ancora una volta – con buona pace della Thatcher – si dovrà prendere atto del nesso esistente fra modo di produrre ricchezza ed organizzazione della società.

Del resto quest’anno bisestile ha già squadernato davanti ai nostri occhi contraddizioni che finora non emergevano perché nel suo insieme il tessuto sociale teneva. Nelle settimane del lockdown evitavamo i rischi dei supermercati aspettando in poltrona che fattorini sottopagati e privi di tutele ci recapitassero il cibo prodotto in aziende agricole in grado di funzionare solo sfruttando manodopera in regime di semischiavitù.

Senza dire che nell’epoca dell’economia della conoscenza un virus ignoto ha messo in ginocchio le più grandi potenze industriali, e che nella società del benessere (cioè innanzitutto della buona salute) ci si è scoperti privi di adeguati presidi sanitari: mentre didattica a distanza e smart working ci hanno consentito non solo di misurare il digital divide, ma di entrare nelle abitazioni private per scoprire che quasi nessuno dispone di una stanza tutta per sé, che già novant’anni fa era l’oggetto del desiderio di Virginia Woolf.

Per molto meno, nel secolo scorso, si è auspicato “un nuovo modello di sviluppo”: mentre oggi il dibattito pubblico è focalizzato sulle mascherine e sul “distanziamento sociale” (cioè sulla precettistica più minuta, e talvolta grottesca). In questo contesto, quindi, non c’è da stupirsi se molti hanno frainteso il senso dell’enciclica. C’è invece da preoccuparsi per la cecità con cui si persegue un “ritorno alla normalità” senza neanche immaginare un futuro diverso: un futuro da progettare a partire dalla constatazione che siamo tutti fratelli, così come eravamo tutti fratelli quando – dall’invenzione della ruota alla quarta rivoluzione industriale – abbiamo gradualmente fatto evolvere i modelli sociali che ci hanno consentito di addomesticare sia l’homo homini lupus che la natura: della quale fa parte anche l’homo homini virus, l’uomo portatore di contagio.

Papa Francesco si colloca in questa prospettiva, innovando piuttosto il pensiero religioso che quello politico. La pandemia non è “un castigo di Dio”, come si predicava una volta e come si penserà ancora in qualche parrocchia periferica: è una sfida della natura all’umanità, che questa dovrà vincere ancora una volta (e sempre con l’aiuto di Dio). E pazienza se anche questa volta alcune pratiche sociali – oggi il mercato governato dalla “mano invisibile”, ieri la proprietà feudale, l’altro ieri il tribalismo – verranno superate: è il progresso, bellezza. 

 

*Direttore di Mondoperaio

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