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Luci ed ombre di un modello di sanita’

Il 21 febbraio scorso, in provincia di Padova, è deceduto il primo paziente italiano ammalato di Covid19. La pandemia si è diffusa nel nostro Paese quasi contemporaneamente in Veneto e in Lombardia. Immediatamente, in Veneto, ci si è sentiti investiti da un’emergenza imprevista e dai risvolti pericolosi per la popolazione.

Nel giro di poche settimane, mentre si provvedeva a limitare i contatti sociali e anche a fermare molte attività economiche e produttive, e mentre la pandemia si espandeva rapidamente in Emilia Romagna, Piemonte e Marche, si è potuto registrare la differenza dei sistemi sanitari regionali attraverso le diverse modalità messe in campo per gestire la pandemia. 

E nel corso del tempo, anche in questa complicata e impegnativa seconda ondata, emergono con evidenza i modelli e le pratiche più efficaci per affrontare nel miglior modo possibile la crisi sanitaria.

Il sistema socio sanitario del Veneto ha dimostrato, nella prima come nella seconda fase, di essere un modello tra i più resistenti (o resilienti, come si vuol dire) allo stress indotto dalla pandemia, per quanto esistano elementi di debolezza che hanno bisogno di essere puntualmente studiati e affrontati.

Non disponiamo ancora di tutti i dati utili ad una analisi approfondita, ma è possibile già ora indicare quali siano le caratteristiche specifiche del modello socio sanitario veneto, che possono concorrere, nell’ambito di una riflessione su scala nazionale, alla definizione nonsolo di un sistema ottimale di gestione di un evento traumatico come una crisi pandemica,ma in generale a migliorare la qualità dell’assistenza sanitaria e l’effettiva presa in carico del paziente.

La prima caratteristica peculiare del sistema veneto, coerente con una programmazione di medio termine già consolidata, è il riconoscimento della dimensione territoriale, nei suoi diversi presidi, quale luogo di assistenza e di cura dei pazienti e la realizzazione di una filiera assistenziale che integra in maniera complementare e coordinata, il ruolo del territorio con quello dell’ospedale. Ciò ha consentito un basso ricorso all’ospedalizzazione dei malati di Covid19 (limitandola ai pazienti con effettivo bisogno di assistenza specializzata continua), scelta che ha ridotto in maniera consistente, soprattutto nella prima fase, i contagi in ambiente ospedaliero, che invece sono stati molto diffusi in altre regioni. La scelta di rafforzare i servizi territoriali, limitando alle situazioni di comprovata gravità i ricoveri, peraltro, avrebbe bisogno anche in Veneto di un aumento degli investimenti nella medicina di base e nei servizi domiciliari, per potere essere davvero ancora più efficace e utile per i pazienti e le loro famiglie.

In secondo luogo, il sistema sanitario veneto ha scelto di potenziare i servizi di prevenzione e di igiene e sanità pubblica e, sin dai primi giorni della pandemia, in stretta sinergia con le università del territorio, di mettere in campo azioni di screening diffuso tra la popolazione, investendo in macchinari per l’elaborazione rapida dei tamponi per aumentare la capacità di monitoraggio della popolazione. Nella “seconda fase”, quella della riapertura delle attività produttive, si è realizzato, d’accordo con le parti sociali, un “progetto pilota” per il monitoraggio con test sierologici e tamponi che ha coinvolto decine di migliaia di lavoratori nelle imprese del territorio. E ora, nella gestione della seconda ondata, il Veneto ha testato e sperimentato in maniera diffusa i tamponi rapidi e sta testando l’utilizzo di test fai da te, che permetterebbero (una volta che ne fosse provata l’efficacia) di alleggerire il carico organizzativo della gestione dei tamponi. Purtroppo l’alto numero di contagiati in questa seconda fase sta di fatto impedendo di realizzare quello che sarebbe assolutamente necessario per contenere il contagio: fare un vero tracciamento dei contatti di ogni singolo caso di positività per individuare, a ritroso, tutti i possibili contagiati. Questo processo di tracciamento va assolutamente ripristinato e mantenuto non appena ci sarà un calo del numero dei contagiati.

Il terzo punto di forza messo in campo dal sistema sanitario del Veneto deriva dalla riforma dell’assetto socio sanitario realizzata pochi anni fa: oltre alla riduzione del numero di aziende socio sanitarie nel territorio, la nuova legge ha istituito la cosiddetta “Azienda Zero”, che ha il compito di coordinare le singole aziende socio sanitarie del territorio e di provvedere alle azioni di sistema, come per esempio gli approvvigionamenti. Questa scelta permette, sulla scorta di una efficiente gestione manageriale, di mettere a disposizione di ospedali e medici nel territorio tutti gli strumenti di cui hanno bisogno nella gestione della pandemia, dalle mascherine per il personale ai tamponi alle bombole d’ossigeno, e così via. 

La struttura sanitaria regionale ha saputo reagire con tempestività all’emergenza epidemica, individuando le criticità da gestire, dando puntuali indicazioni organizzative al funzionamento degli ospedali, prevedendo accessi controllati nei Pronto soccorso, individuando i nosocomi dedicati esclusivamente alla cura di pazienti Covid per evitare possibili diffusioni dei contagi, e riattivando a tempo di record cinque strutture ospedaliere chiuse da tempo.

Infine, il ruolo della Regione Veneto è stato importante anche nella relazione con le parti sociali. Vale la pena sottolineare, ad esempio, che subito dopo la firma del Protocollo nazionale sulla sicurezza nei posti di lavoro del 14 marzo, in Veneto si è siglato un accordo che ha previsto l’intervento degli Spisal nei posti di lavoro per verificare l’applicazione dei protocolli aziendali per la sicurezza. In applicazione dell’accordo, a fine ottobre gli Spisal del Veneto avevano ispezionato 19.651 imprese (che occupano 483.630 lavoratori) rilevando che il 78% delle imprese hanno applicato correttamente i protocolli di sicurezza anti Covid19, il 21% ha ricevuto indicazioni di miglioramento e solo l’1% (218 imprese) ha visto riscontrare irregolarità.

Non mancano, però, i punti deboli del sistema nella gestione della pandemia. Punti deboli che rischiano, nel perdurare della pandemia, di pesare molto sulla sorte di tanti pazienti, soprattutto nelle fasce più deboli della popolazione.

Innanzitutto stiamo assistendo a una continua crescita di contagi e a un numero crescente di decessi nelle case di riposo per anziani, sia in quelle pubbliche che in quelle private. Le organizzazioni sindacali in Veneto stanno chiedendo da anni una riforma delle Ipab e delle case di riposo. Il Veneto è rimasto ormai l’unica regione in Italia a gestire i servizi per gli anziani sulla scorta della legge Crispi del 1890. Nonostante una grande mobilitazione sindacale rilanciata ormai due anni fa, che chiedeva di procedere con urgenza alla riforma, e soprattutto che chiedeva di inserire le RSA entro il raggio di azione delle aziende socio sanitarie locali, e quindi con una programmazione condivisa, la scorsa consigliatura regionale si è chiusa senza la capacità della (ampia) maggioranza di arrivare ad approvazione della nuova norma sulle Ipab. E’ evidente che, se avessimo affrontato la pandemia con una gestione integrata delle RSA nell’ambito di azione e programmazione delle aziende socio sanitarie locali, ci sarebbe stata la possibilità di intervenire con maggior tempestività e con maggiori risorse anche nelle case di riposo.

Infine, l’altro punto debole del sistema socio sanitario veneto è il rischio di un progressivo impoverimento professionale dovuto ad una programmazione del personale poco lungimirante. Uno studio di Cisl Veneto pubblicato poche settimane fa stima, ad oggi, la carenza di personale di 8.000 infermieri e 2.000 operatori socio sanitari, che si sommano ad una cronica difficoltà a reperire medici di varie specialità. I concorsi indetti dal sistema socio sanitario pubblico veneto stanno creando un fenomeno preoccupante, cioè lo svuotamento delle RSA e delle strutture private, i cui infermieri e OSS partecipano ai bandi di assunzione nel sistema pubblico e incrementano la carenza di personale nelle strutture di loro provenienza.

In sintesi, la tenuta del sistema socio sanitario Veneto nel corso della pandemia si è fondata su una struttura organizzativa efficiente che ha saputo reagire con tempestività operando corrette scelte gestionali e su un forte coinvolgimento del territorio e della comunità, attivando il mondo del volontariato, prezioso per l’apporto dato alle esigenze che emergevano. Per contro, la pandemia ha evidenziato i punti deboli del sistema, legati in gran parte a difetti di programmazione di medio e lungo termine, (per la verità non addebitabili esclusivamente al livello regionale), e ad un ritardo nel potenziare tutta la filiera dell’assistenza territoriale.

Da una analisi puntuale dei punti di forza e di debolezza è comunque necessario partire per avviare una seria riflessione di medio-lungo termine, che guardi oltre la pandemia, anche in una dimensione nazionale, per ridisegnare il welfare e la sanità del futuro.

Infine è doveroso ricordare che la qualità dei livelli assistenziali dipende sì da modelli organizzativi coerenti alle esigenze dei diversi contesti sociosanitari e alle caratteristiche dei territori, ma poggia sulle spalle di tanti medici e operatori che con ruoli e compiti diversi concorrono al corretto funzionamento del sistema e ad assicurare, soprattutto in questa difficile contingenza, non solo professionalità ma anche dedizione e umanità nella cura dei pazienti. Alla loro fatica, al loro impegno e anche al loro sacrificio va il sincero ringraziamento della comunità del Veneto.

 

*Segretario generale della CISL Veneto

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