Nelle ultime settimane abbiamo assistito a diverse vicende internazionali che hanno evidenziato un protagonismo inedito del nostro Paese.
Da diversi anni ormai ci eravamo abituati ad un ruolo minore (e spesso subalterno) dell’Italia nello scenario euro-mediterraneo. Il nostro ruolo internazionale sembrava di fatto appaltato all’opera, meritoria, svolta dalle nostre Forze Armate operative in numerose missioni in aree di crisi, senza che a questi sforzi, che ci sono costati in termini di vite umane, di impegno economico e logistico, corrispondesse un ritorno per la diplomazia del nostro Paese.
Ma “se Sparta piange, Atene non ride”. Anche per l’Unione Europea, la politica estera è stata residuale se non inesistente, essendo rimasta appannaggio esclusivo degli Stati membri, nonostante fosse evidente a tutti da anni che, per cooperare o competere quando necessario, in maniera adeguata in questa epoca di globalizzazione, solo la dimensione europea è in grado di esprimere la forza economica, produttiva, di mercato e militare capace non solo di difendere gli interessi dei nostri Stati ma, altresì, di affermare il sistema valoriale europeo sui diritti civili, politici e sindacali, sulle libertà di culto e di orientamento sessuale, sulla tutela dei diritti delle minoranze siano esse etniche o religiose, sul ruolo di controllo della stampa libera, sulla partecipazione popolare e democratica dei cittadini, di tutti i cittadini, alle scelte dei governi.
Finalmente qualcosa sembra muoversi nella giusta direzione. Mi riferisco a tre eventi, apparentemente scollegati tra loro, che hanno visto un protagonismo diverso del Governo italiano presieduto da Mario Draghi.
Il primo di questi eventi è stata la visita del nostro Presidente del Consiglio in Libia. Senza voler rinvangare le varie fasi del nostro rapporto con questo Paese, è un fatto che oggi il ruolo storico dell’Italia in Libia è stato soppiantato dall’ interventismo turco.
La Libia, per il nostro Paese, riveste un ruolo strategico sia per le sue riserve energetiche che per il controllo dei flussi migratori. Il consolidamento delle istituzioni libiche, visto che le pulsioni colonialistiche non appartengono né alla nostra cultura né alla nostra diplomazia, è stata la costante del nostro impegno. Ma nonostante siamo rimasti l’unico Paese occidentale a tenere aperta la nostra ambasciata durante gli anni del conflitto infralibico, quando questo si è radicalizzato ed internazionalizzato, siamo divenuti marginali, vista la nostra sacrosanta volontà di non farci coinvolgere in eventi bellici. Ne hanno approfittato nazioni molto più spregiudicate ed assertive di noi, come la Turchia e la Russia, che con la forza delle armi hanno diviso la Libia in rispettive aree di influenza. Tuttavia ciò non basta ad assicurare nel tempo una reale ripresa di quel Paese; inoltre non va assolutamente sottovalutata la refrattarietà del popolo libico verso il colonialismo nelle sue varie manifestazioni.
Il nuovo governo libico di unità nazionale sembra aver capito che se vuole mantenere l’indipendenza effettiva del Paese ha bisogno di un rinnovato protagonismo europeo. Draghi con la sua visita ha dimostrato che l’Italia è consapevole di ciò e vuole essere lo strumento per iniziative congiunte della UE.
L’altra questione è stata quella relativa alla rete di spionaggio russo in Italia. Anche qui niente di nuovo, lo spionaggio esiste da sempre, è reciproco, conosciuto e, entro certi limiti, sostanzialmente tollerato.
Da quanto abbiamo avuto modo di leggere, i nostri servizi segreti da tempo sapevano e monitoravano l’attività di spionaggio dell’ufficiale italiano e i suoi referenti russi. Con il disvelamento di questa attività, l’Italia ha voluto dimostrare di non essere il ventre molle dell’Alleanza Atlantica, di essere in grado di difendere gli interessi strategici suoi e dei suoi alleati, di voler contrastare i tentativi russi di disarticolazione della UE e di indebolimento dell’Alleanza atlantica.
Infine ci sono state le parole di Draghi in conferenza stampa, quando ha definito “dittatore” il presidente turco Erdogan.
Non si tratta, a mio avviso, di “parole dal sen sfuggite”, ma di un preciso avvertimento a quel governo che, sulla spinta di Erdogan, vuole essere sempre più assertivo in Mediterraneo e in Africa, non rispetta i diritti umani e civili dei suoi cittadini, tiene in galera migliaia di oppositori, politici, intellettuali, giornalisti, professori universitari, magistrati e persino generali e ammiragli, continua a negare l’esistenza stessa del popolo curdo e lo massacra, giustifica la violenza contro le donne, ricatta l’UE sulla pressione migratoria, tenta di imporre con la forza e non con il negoziato la sua sovranità su spazi marittimi mediterranei ad oggi, secondo il diritto internazionale, di pertinenza di altri Paesi.
La Turchia è pure il principale ostacolo, insieme alla Russia, verso una effettiva riunificazione della Libia che, come abbiamo visto, rappresenta per l’Italia e per la UE, una questione strategica.
Penso, infine, che l’avvertimento di Draghi costituisca anche un richiamo, pur nell’ambito di una ritrovata unità di intenti e di valori con l’amministrazione Biden, alla coerenza USA, che sta dando segnali di grande attenzione al progetto turco per la realizzazione di un canale artificiale di collegamento tra il Mediterraneo ed il Mar Nero. Questa nuova via d’acqua infatti consentirebbe di superare il vincolo imposto dal trattato internazionale vigente sull’attraversamento degli stretti turchi, che prevede che nessuna imbarcazione, ad esclusione di quelle appartenenti ai paesi rivieraschi, può permanere in Mar Nero per più di 21 giorni. Questa regola ha finora impedito che gli USA potessero mantenere una propria presenza stabile in Mar Nero ed è quindi ovvio che la US Navy è interessata a superarla.
La lettura congiunta di questi avvenimenti, porta a pensare ad una volontà italiana di essere protagonista e capofila di una nuova politica mediterranea dell’Unione Europea e segnatamente dei paesi euro mediterranei, nella cornice di una ritrovata intesa con gli Stati Uniti.
Tuttavia tutto ciò non basta a segnare una duratura ripresa del ruolo europeo nel Mediterraneo. L’Italia e l’Europa devono farsi portatrici di un grande progetto di rilancio economico dei paesi del Magreb e dell’Africa sub sahariana e del Medio Oriente.
Un progetto che partendo dalla creazione diffusa di scuole professionali, consenta ai giovani africani e mediorientali di avere prospettive di impiego nei loro rispettivi paesi collocandovi la produzione delle subforniture necessarie al sistema industriale europeo. La sua realizzazione consentirebbe da un lato di dare una risposta duratura alla pressione migratoria e dall’altro di accorciare drasticamente, sia produttivamente che geograficamente, la catena del valore della nostra economia.
C’è da chiedersi, infatti, perché non si possa produrre in questi paesi, ciò che oggi viene principalmente prodotto in Cina ed in altri paesi del Sud Est asiatico. Una grande operazione di questo tipo infatti determinerebbe una notevole riduzione dei costi di trasporto, il superamento dei problemi derivanti dai “colli di bottiglia” nelle rotte mercantili e come già detto determinerebbe una risposta duratura, non repressiva, cooperativa e non neo colonialista, allo sviluppo di queste aree del mondo e al contenimento dei flussi migratori.
La pandemia prima e il recente blocco del Canale di Suez poi, stanno lì a dimostrarci la fragilità delle nostre catene produttive definite dal modello industriale del “just in time”, dalla ricerca continua di costi del lavoro sempre più bassi e dall’assenza di diritti per i lavoratori.
È urgente una nuova visione dello sviluppo globale, dei processi produttivi, dei diritti inalienabili di tutti gli esseri umani. Senza questa, anche la svolta Green della UE non avrebbe senso e sarebbe condannata alla sconfitta.
È il momento che la UE, gli Stati e le grandi imprese europee, varino piani di Investimento straordinari verso l’Africa ed il Medio Oriente.
*dell’Associazione Riformismo e Solidarietà