Ci vorrebbe la lucidità di Christopher Clark per descrivere la performance della nostra classe dirigente nell’ultimo decennio. Solo dei sonnambuli, infatti, potevano immaginare che dopo l’esperienza del governo Monti tutto sarebbe tornato come prima, e la dialettica politica avrebbe trovato il modo per rifluire ordinatamente nello schema bipolare inaugurato nel 1994. Ed infatti non fu così.
La legislatura eletta nel 2013 non riuscì a designare un nuovo presidente della Repubblica e costrinse Napolitano ad accettare un secondo mandato. Poi si fece schiaffeggiare daL rieletto sull’urgenza di riforme istituzionali mature da tempo, salvo pretendere di poterle realizzare con un cacciavite. Infine salutò con favore il passaggio delle consegne da Letta a Renzi, che si impegnava ad usare strumenti più congrui per chiudere un ciclo aperto dalla Commissione Bozzi nel remoto 1985: salvo lasciarlo solo non “al comando”, ma nella sconfitta referendaria.
Nel frattempo il capo dell’opposizione era stato espulso dal Parlamento (peraltro in base ad una legge da lui stesso votata nella legislatura precedente): mentre Massimo D’Alema, Pierluigi Bersani, Pietro Grasso e Laura Boldrini uscivano dal Pd per allearsi niente di meno che con Nicola Fratoianni e Pippo Civati. Del resto prima di questa generazione di sonnambuli ce n’era stata un’altra a propiziare il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica. Per individuarla basta riandare con la memoria al confronto che si ebbe nel 1991 sul profetico messaggio alle Camere del presidente Cossiga: che prima non avrebbe dovuto neanche vedere la luce, dato il rifiuto di Andreotti di controfirmarlo (al quale rimediò il guardasigilli Martelli); poi non avrebbe dovuto essere discusso in Parlamento, come aveva chiesto a Nilde Iotti il capogruppo del Pds Quercini; infine, quando venne discusso, rivelò la miopia dei leader politici dell’epoca, nessuno escluso.
I sonnambuli descritti da Clark scivolarono quasi senza accorgersene nella prima guerra mondiale. Quelli del 1991 scivolarono a loro volta nella partitocrazia senza partiti a cui inevitabilmente si riduce un sistema fondato più sulle convenienze elettorali che sugli equilibri istituzionali. I nostri, invece, si trovano a loro insaputa a far parte di un governo di unità nazionale: il che comporta come minimo lasciare le felpe ed il linguaggio della propaganda, e come massimo mettere sul tavolo qualche idea (sempre che ci sia). Anche perché la legislatura in corso non è stata da meno di quella che l’ha preceduta, ed il meglio di sé lo ha dato col secondo governo Conte, dall’inizio alla fine: dall’inizio, perché non si è mai visto un presidente del Consiglio restare in carica alla guida di due coalizioni diametralmente opposte; ed alla fine, deplorata in termini tali da costringere Claudio Petruccioli a precisare che l’avvocato del popolo non è Allende. E meno male che Mattarella li ha svegliati prima che qualcuno confondesse Conte con Moro o con Berlinguer.
Com’è noto, comunque, svegliare i sonnambuli è pericoloso: non per gli altri ma per loro stessi, che nel caso, infatti, sono stati presi dalle convulsioni. Zingaretti si è dimesso, manifestando addirittura vergogna per il partito di cui era segretario. Conte invece ha trovato un posto, anche se non si sa bene ancora quale, e soprattutto se dovrà chiedere prima il permesso a Rousseau, che nel frattempo si è messo a navigare contro vento.
La formazione del governo Draghi, insomma, comincia a produrre i suoi effetti: che forse non saranno quelli – miracolistici – che ci si attende dalle policies, ma innanzitutto quelli relativi alle politics. Il che non significa, almeno questa volta, la manipolazione delle leggi elettorali ad uso delle oligarchie che hanno sostituito i partiti, ma l’esatto opposto. Si tratta di sostituire a malferme oligarchie, partiti degni di questo nome: e quindi con un’identità che non dipende dai sondaggi, una militanza che non è massa di manovra dei cacicchi, una “vocazione maggioritaria” che non vuol dire cercare di vincere a tutti i costi, ed una politica delle alleanze condotta con criteri diversi da quelli che si misurano col pallottoliere (anche perché c’è chi sa che la somma di 13,84 e 6,10 non è 19,94, ma 14,48).
A quanto pare Enrico Letta si è posto su questa lunghezza d’onda ed ha lasciato a Parigi il cacciavite. Ha anzi impugnato la sciabola per porre all’ordine del giorno lo ius soli ed altri temi divisivi che non a caso non sono nel programma di governo ma che proprio per questo meritano di essere valutati dal Parlamento: e se qualcuno avrà la pazienza di spiegare a Salvini come vennero discusse e approvate la legge sul divorzio e quella sull’aborto avremmo una polemica in meno. Ovviamente però non basterà la sciabolata di Letta sullo ius soli per ricomporre un’area di centrosinistra: né dovrebbe essere necessaria la mediazione di Conte per sanare la scissione di Leu o quella di qualcun altro per riaprire un dialogo con Renzi. Così come non servirà aprire l’ennesimo cantiere per confrontarsi con i tanti cespugli che comunque presenteranno puntualmente il conto in occasione dei prossimi appuntamenti elettorali.
Sarà invece necessario aprire un discorso “alto” capace anche di sciogliere nodi rimasti irrisolti da almeno trent’anni a questa parte: magari mobilitando le energie intellettuali presenti in tante istituzioni culturali finora tenute ai margini del dibattito pubblico dai protagonisti della politique politiciénne. Nel nostro piccolo non mancheremo di dare il nostro contributo. Con una sola preghiera: che si eviti lo spreco di parole come “riformismo” o “socialismo liberale”. I liberalsocialisti ormai si trovano ad ogni angolo di strada: basta volersi distinguere dai comunisti e dai democristiani (nonché dai socialisti veri) per definirsi tali, con buona pace di Guido Calogero e di Carlo Rosselli (ed anche di Luciano Pellicani). E quanto al riformismo, già negli anni di Reagan e della Thatcher Norberto Bobbio ci spiegò che “dove tutti sono riformisti nessuno è riformista.
*Editoriale di Mondoperaio n 3, 2021, scritto prima dell’improvvisa morte.