Non nascondiamoci dietro il dito di Draghi che, per ora, ha messo a tacere i mugugni brussellesi sulla nostra capacità di condurre in porto, con tranquillità sufficiente, quello che si indica nel Piano Nazionale di Riprese e Resilienza (PNRR). Il problema esiste da almeno un ventennio: incapacità di fare riforme strutturali e ripiegamento nelle misure di lacrime e sangue.
Ora l’Europa non ci chiede più austerità. Ci chiede di cambiare grandi storture sistemiche (procedure decisionali pubbliche, giustizia civile e penale) e piccoli ma significativi nodi concorrenziali (tipo concessioni delle spiagge, che solo a dirlo vien da piangere) per spendere bene e in tempi certi la massa di prestiti che ci accolliamo e che l’Europa garantisce per nostro conto. Uno scambio ragionevole, ma non tutte le orecchie sono disponibili a prestare ascolto.
Infatti, prima che il robusto plico del PNRR partisse per Bruxelles, il dibattito in Parlamento è stato distratto (più passionale quello sulla chiusura dei ristoranti alle 22 o alle 23), anche se le parole di consenso sono state variegate ma non ostili; finanche l’unica opposizione (di destra) si è astenuta nel voto. L’acqua resta cheta, ma le difficoltà sono sul tavolo. La sfida è alta, riguarda l’Italia che vorremmo che sia tra qualche anno e la coesione politica non può essere data per scontata.
Il Governo ha prodotto un Piano keynesiano, affiancato da un impianto riformistico di supporto e da un sistema gestionale inclusivo. Facendo riferimento ai criteri valutativi indicati nella newsletter precedente, i contenuti innovativi della politica economica e sociale che è stata delineata son in larga parte condivisibili.
Certo, sarebbe stato meglio che per la lotta all’abbattimento del CO2 si fosse parlato più esplicitamente di consistenti investimenti in verde pubblico e riforestazioni, che sulla ricerca vi fossero più potenziamenti stabili in risorse umane, che la partecipazione dei lavoratori ai cambiamenti tecnologici e da economia circolare fosse messa più in evidenza. Ma non si può negare che il PNRR disegna un’Italia che si spinge con determinazione sui confini dell’intelligenza artificiale, sul lavoro qualificato con misure formative mai previste in passato, sull’attenzione alla dimensione di genere, ai bambini e agli anziani con azioni innovative, sulla realizzazione di riforme – a partire da quella del fisco – che puntano al superamento di intollerabili disuguaglianze e ingiustizie tra persone, territori, settori.
Questo disegno, però, si potrà realizzare soltanto se l’azione del Governo risulterà energica e determinata, pur nella consapevolezza della fragilità del quadro politico. E deve trarre la spinta necessaria per non far prevalere logiche conservatrici e corporative da un costante coinvolgimento sociale a tutti i livelli. Esso sarà fondamentale per una sana realizzazione di medio periodo del Piano. Nelle pieghe di una gestione tutta incentrata nelle mani della burocrazia si può annidare il boicottaggio dell’innovazione, la tutela delle esistenti posizioni di potere economico e amministrativo, le convenienze a far credere che tutto possa tornare come prima.
Un esempio per tutti. Il Piano prevede che in un triennio si possa creare circa un milione di posti di lavoro. Più o meno quanti se ne sono persi finora per colpa della pandemia. Ma se gli investimenti produttivi e sociali andranno tutti nella direzione indicata dal Piano, una consistente parte di essi avrà caratteristiche professionali e di competenze assolutamente nuove. Ci sarà una transizione che va governata e che dovrà riguardare migliaia e migliaia di persone, che non vanno abbandonate a sé stesse, ma che non devono neanche essere illuse che basta attendere pazientemente con questo o quel sostegno economico, per riprendere a fare quello che sapevano fare.
La realizzazione di percorsi di mobilitazione sociale diventa la garanzia più efficace per non lasciare indietro nessuno. Sul piano istituzionale, è sperabile che il protagonista principale sia soprattutto l’entelocale che si è dimostrato più capace di interpretare e governare la società in cambiamento. I sindaci hanno dimostrato di essere stati ampiamente il collante delle comunità aggredite dalla virulenza della pandemia. Se c’è stata coesione sociale, specie nella prima fase dei contagi, essa è merito dell’organizzazione dell’assistenza messa in campo dalle amministrazioni locali. Esse potranno pescare molto nel PNRR per alzare il livello connettivo delle strumentazioni informatiche e metterle al servizio delle persone, delle attività produttive e del terziario privato e pubblico.
Sul piano sociale ed economico, innanzitutto c’è da aspettarsi che il mondo della ricerca, della cultura, dell’insegnamento, del Terzo Settore diano un contributo generoso nel muoversi su visioni strategiche e non di breve periodo. La loro progettualità deve puntare su prospettive più “calde”, quelle che creano senso del futuro, quelle che consentono anche integrazioni a livello sovranazionale.
In secondo luogo, il mondo imprenditoriale e del lavoro autonomo deve dimostrare attenzione ed impegno alle prospettive di medio e lungo periodo, piuttosto che a quelle della tutela immediata, del “meno tasse e più ristori”. Come in altri momenti importanti della storia italiana, da un lato devono aprirsi al confronto con quanti sono in grado di produrre soluzioni solidaristiche e pazienti e dall’altro spazzare via ogni logica corporativa sulle riforme strutturali. Un atteggiamento di questa portata sarebbe un segnale interessante anche verso il sistema dei partiti.
Infine il sindacato confederale. Come nel 1992/93, può essere il protagonista del salto di qualità riformista del nostro Paese. In nome di una rappresentanza che ha dimostrato di avere (accordi sulla sicurezza e vaccinazioni, sulla formazione di nuove competenze, con i rinnovi contrattuali molto innovativi) ma anche di una rappresentanza potenziale (quella che manca, per una ricomposizione del mercato del lavoro) ora senza voce o dispersa in mille rivoli. Il sindacalismo confederale scelga l’unità della proposta, non si limiti all’autoreferenzialità; così può diventare un aggregatore di altri mondi vitali – come quelli indicati –per far sì che i processi innovativi si dispieghino e valorizzino nuove aree di “lavoro buono” e una nuova cultura della partecipazione informata. Forte di questa prospettiva, può chiedere di essere protagonista della migliore e più efficace attuazione del PNRR. La sua voce dovrà essere espressa su tutti i progetti finanziati dal NGEU, creando le basi di un’ampia partecipazione di merito, non corporativa.
C’è un’Italia dei costruttori, come insiste da tempo il Presidente Mattarella. Il PNRR ha posto le condizioni perché sia protagonista, a condizione che si alzi in piedi e si rimbocchi le maniche per riconquistare il timone del Paese. L’alternativa è consentire non tanto ai distruttori, ma ai conservatori (di destra e di sinistra) di avvelenare il “debito buono” con un uso delle risorse improprio o peggio squalificante. E’ una grande e bella sfida che si apre in questa stagione post pandemica. Essa potrà consentire soprattutto alle giovani generazioni di far pesare il loro interessamento per un futuro meno sciatto e sbiadito di quello che si profilava prima del collasso sanitario.