I provvedimenti contenuti nel decreto legge n. 34 del 20 marzo 2014 appaiono particolarmente significativi poiché costituiscono i primi interventi del governo Renzi sul mercato del lavoro. Se il dibattito degli ultimi mesi si è focalizzato su annunci e dichiarazioni di principio che fino a oggi non hanno ancora trovato concreta realizzazione, l’emanazione del decreto lavoro rappresenta un primo momento di riflessione sulle politiche che il governo intende adottare per far fronte all’emergenza occupazionale che, sebbene sia in atto da anni, ha recentemente marcato livelli drammatici.
Premesso che il decreto affronta soltanto questioni residuali rispetto alla complessità del mercato del lavoro italiano e che, dunque, prima di poter esprimere una valutazione complessiva sulle politiche del lavoro del nuovo governo occorre attendere almeno il varo dell’annunciato disegno di legge delega sul jobs act, si possono già cogliere alcune indicazioni piuttosto rilevanti.
L’aspetto più significativo attiene senza dubbio al fatto che gli interventi sui contratti a termine vanno incontro più ai desiderata delle imprese che alle legittime aspettative dei lavoratori precari, realizzando di fatto una ulteriore versione dell’assioma secondo cui il rilancio dell’occupazione deve necessariamente passare per un preventivo incremento della flessibilità.
Purtroppo la storia degli ultimi anni – caratterizzata da riforme ispirate dalla corsa alla flessibilità e dalle conseguenze che esse hanno contribuito a produrre sui livelli di occupazione, in calo, e di precarietà, in aumento – ha ampiamente dimostrato come tale soluzione sia nel migliore dei casi soltanto un palliativo da gettare in pasto alla pubblica opinione, spesso sulla pelle delle giovani generazioni.
In tal senso si fa fatica a ritenere che consentire di rinnovare un rapporto di lavoro a termine otto volte in tre anni possa favorire competitività delle imprese e ripresa economica. Presumibilmente, al contrario, è molto più logico immaginare come tutto ciò incentiverà ulteriormente la precarietà. Si tratta, infatti, di un provvedimento che essenzialmente allunga a dismisura il periodo di prova spostando ulteriormente il “potere contrattuale” dal lato delle imprese, senza peraltro assicurare che, come al contrario affermato da autorevoli esponenti del governo, tale intervento possa efficacemente realizzare l’obiettivo di stabilizzare i lavoratori al termine dei tre anni.
L’impressione è che piuttosto che concentrarsi sulla valorizzazione e sull’incentivazione dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato si focalizzi l’attenzione e s’impegnino risorse su forme di lavoro meno virtuose sia da un punto di vista sociale che sulla base di un mera valutazione legata alla crescita economica del nostro Paese.
Altro aspetto da non sottovalutare attiene alla questione dell’introduzione nell’ordinamento giuridico italiano della figura del contratto d’inserimento a tempo indeterminato a tutele crescenti, strumento più volte annunciato dallo stesso Matteo Renzi. Se si vuole puntare su un ingresso nel mercato del lavoro focalizzato sull’utilizzo di tale forma, non si comprende come ciò possa conciliarsi con gli attuali interventi sui contratti a termine.
Per quanto attiene, infine, alle modifiche che il decreto legge ha introdotto alla disciplina dell’apprendistato, è positiva l’ulteriore semplificazione sull’accesso alla formazione, accesso ad oggi troppo disorganico, ma occorre comunque garantire le clausole formative del contratto che, altrimenti, si configurerebbe soltanto come una pura forma di lavoro a basso costo.
Anche qui, tuttavia, non si può fare a meno di notare come questa ennesima mini riforma dell’apprendistato non affronti ancora una volta il nodo fondamentale legato all’insuccesso di tale forma contrattuale, forma peraltro piuttosto onerosa per le casse pubbliche visto che la spesa per il suo finanziamento si attesta sui 2,250 miliardi di euro annui. Se, come indicato nella stessa legge, l’apprendistato è un contratto di lavoro a tempo indeterminato finalizzato alla formazione e all’occupazione dei giovani e se, come mostrano i dati, al termine del periodo formativo vengono stabilizzati non più del 20 per cento degli apprendisti avviati, è evidente come tale istituto nella maggiore parte dei casi non venga utilizzato per le finalità disposte dalla legge ma, presumibilmente, soltanto come un mezzo per abbattere temporaneamente il costo del lavoro grazie ai contributi dello Stato.
Se si vuole affrontare tale problematica con coraggio e senso della realtà non si può ignorare il fatto che fino a quando il peso degli incentivi non verrà rimodulato, attraverso un significativo trasferimento temporale degli stessi dal periodo di formazione a quello di stabilizzazione, il contratto di apprendistato non potrà mai trovare compiuta realizzazione.
In conclusione, seppure alcuni interventi contenuti nel decreto possono contribuire alla semplificazione degli adempimenti delle imprese e dunque vanno nella giusta direzione, le norme sui contratti a termine rischiano di incrementare ulteriormente la precarietà, mentre quelle sull’apprendistato non affrontano il nocciolo della questione: per il rilancio dell’occupazione sono necessari interventi ben più calibrati e di più ampio respiro.
Per chi come me, come peraltro dichiarato più volte anche dallo stesso presidente del consiglio, crede che il lavoro non si crei per decreto ma soltanto determinando le migliori condizioni possibili in un contesto di equilibrio tra esigenze delle imprese e aspettative dei lavoratori, tutto ciò non rappresenta quel cambio di passo che si attende da un governo che dovrebbe guardare al tema della precarietà e dell’occupazione giovanile in un’ottica moderna e non ideologizzata.
(*) Portavoce Associazione XX Maggio