Risuonavano ancora gli applausi al Governo e alle parti sociali per il cosidetto “avviso comune”, sottoscritto per sancire la tregua nella conduzione della politica contro i licenziamenti collettivi ed ecco che le cronache ci informano di chiusure di aziende multinazionali annunciate ai lavoratori con WhatsApp freddi e stringati. Modi spicci e tempi rapidi per cogliere l’attimo di rilassamento delle tensioni che avevano preceduto quella intesa.
Nessuna retorica contro comportamenti incivili da parte di managers poco avvezzi al ruolo sociale delle imprese potrà frenare vicende come quelle della GKN e della Gianetti. Formalmente, non c’è stata nessuna illegalità. L’”avviso comune”, se non si trasforma in un provvedimento di legge, è un patto privatistico. Ma bisogna ricordare che da anni ormai le Linee guida OCSE sulle Multinazionali, anch’esse non vincolanti legalmente, prevedono l’impegno dei Governi alla loro osservanza. Nel caso di licenziamenti collettivi, impongono alle imprese di aprire un tavolo di consultazione preventivo con le organizzazioni sindacali. In particolare, la Giannetti, è parte di un fondo di investimento: la Quantum Capital Partners (QCP) che afferma di essere: “un investitore responsabile che cerca di impegnarsi in investimenti sostenibili a lungo termine che offrano il massimo valore per tutte le parti interessate”.
Ma non facciamoci illusioni. La questione è più ampia. La pandemia ha soltanto accelerato un processo che invece il New Generation EU ha affrontato e cercato di mettere su binari solidi di governo: la drammatica coincidenza tra emergenza climatica ela formidabile crescita dell’intelligenza artificiale. Due questioni che non rivoluzionano soltanto il senso e le priorità dello sviluppo futuro, non solo scombinano i ruoli tra Stato e mercato, ma mettono in fibrillazione il mercato del lavoro nei suoi aspetti qualitativi e quantitativi.
Di questo l’Italia non è ancora pienamente consapevole. Si suona la grancassa della ripresa produttiva; si esaltano previsioni di crescita del PIL in percentuali inusuali da almeno venti anni, ma che, se va bene, ci riportano al livello del 2019; si continua ad alimentare l’idea che ognuno può ritornare a fare quello che faceva prima. Non si aiutano così le persone più esposte ai cambiamenti incombenti. Un persistente congiunturalismo domina il dibattito politico, economico e sindacale. E il Governo, che ha preso sul serio l’indicazione europea di collegare investimenti e riforme strutturali, fa fatica ad imporsi. La questione giustizia spiega con nettezza questa difficoltà, ma all’orizzonte c’è la questione fiscale e soprattutto quella degli ammortizzatori sociali e delle politiche attive del lavoro.
Non è una questione settoriale; ne va di mezzo la vita concreta di centinaia di migliaia di persone. Fino a ieri bastava avere adeguati ammortizzatori sociali per tenere testa alla disoccupazione frizionale (specie al Centro-Nord) e quella endemica (specie al Sud). Ora non basta. Se è vero che vivremo di lavori e non di un lavoro fisso a vita e che questa prospettiva è concreta sia per giovani e adulti, che per quote crescenti di occupati, occorre agire su tre fronti contemporaneamente: orientamento scolastico e universitario strutturato per essere diffuso, continuo e corrispondente alle opportunità di lavoro; ammortizzatori sociali universali ma – terzo obiettivo – strettamente connessi alla frequentazione della formazione continua, specie per gli adulti, per farne il perno della mobilità da lavoro perso a lavoro ritrovato.
Di questo si parla inconcludentemente nei convegni, gli interessi restano distanti e sfilacciati, i tavoli decisionali rapidamente si concentrano sull’immediato, sulle urgenze, sulle convenienze più a portata di mano. Anche queste sono inevitabili, ma non si possono più rinviare le scelte strutturali. Esse riguardano le risorse da mettere a disposizione, ma soprattutto “chi” le deve gestire e “come” praticarle. Per questo, al più presto, il Presidente del Consiglio dovrebbe occuparsene e con fermezzarafforzare l’attuazione degli strumenti internazionali, come le Linee Guida
OCSE che regolano, seppur in modo non vincolante, le relazioni all’interno dell’impresa, ed obbligare tutte le parti in causa anon rimanere ferme sulle proprie posizioni, ma ricercare la migliore mediazione possibile. Il tempo stringe e la realtà è sempre più esigente di opzioni coraggiose.