Eccoci, è arrivato il Jobs Act, annunciato non come un banale Piano per il Lavoro, di antica memoria, ma come una fresca rivoluzione che dovrebbe risolvere il problema della galoppante disoccupazione.
Il Jobs Act è composto di due parti, la prima costituita da un decreto-legge per i provvedimenti urgenti, la seconda incentrata su una delega al governo per ridisegnare l’intera struttura del mercato del lavoro.
Il cuore del decreto-legge mi sembra tuttavia essere all’insegna della continuità con la vulgata preesistente, che attribuisce la crescente difficoltà a generare occupazione ai vincoli di ingresso al mercato del lavoro. Quindi, dopo aver smontato un pezzetto dopo l’altro il quadro delle regole, siamo arrivati a scrivere una norma in cui si sostiene che ad esempio nell’apprendistato la formazione trasversale è facoltativa.
Il testo distribuito, che riporta solo le parole da sostituire rispetto al testo precedente e non le norme in evidenza esplicita – anche qui siamo nel continuismo normativo – indica che alla parola “si deve” si sostituisce “si può”. Si poteva scrivere “al vostro buon cuore”.
Che le norme sull’apprendistato dovessero essere riviste, perché diversamente applicate nel paese, è giustamente materia di discussione, ma che la soluzione fosse tirare una riga, eliminando di fatto l’integrazione formativa, è una forzatura che nei fatti riduce l’apprendistato ad un contratto di accesso sussidiato e si iscrive in un approccio che ha progressivamente smantellato ogni diritto nel periodo di entrata nel mercato del lavoro, un periodo che del resto si allunga sempre più mettendo in fila tirocini vari, apprendistati successivi ed ora contratti a tempo determinato cumulabili fino a tre anni. Non dimentichiamoci, a questo proposito, la condanna europea all’Italia, siamo negli anni Novanta, sui contratti di Formazione e Lavoro per la prevalenza dello sgravio, a fronte di un’assenza ingiustificabile della componente formativa.
In questa ottica, anche gli altri provvedimenti appaiono chiari e riducibili ad una frammentazione dei rapporti di lavoro, che mi pare essere esattamente il contrario di quella azione di progressiva valorizzazione delle risorse umane che dovrebbe essere alla base di un rilancio del Paese.
Qui non si tratta di preferire una norma efficace ad una giusta, ma di domandarsi se questa tendenza alla frammentazione ed all’appiattimento sia efficace.
Se la crisi occupazionale discende dalla rigidità del mercato del lavoro, specie in entrata, allora i dieci anni di progressivo smantellamento di ogni garanzia avrebbero dovuto tradursi in un aumento spettacolare dell’occupazione giovanile. Va bene la crisi, ma l’evidenza che le progressive liberalizzazioni hanno creato più problemi di quanti non ne abbiano risolti deve comunque indurre il governo a domandarsi se questa sia la via per generare lavoro. In ogni caso non mi pare si possano intravedere nel decreto i segni di quella progressività nei diritti che avrebbe dovuto essere la chiave di volta di tutta la manovra governativa in materia di Lavoro.
L’incontro con il Ministro del lavoro – il 19 marzo Poletti ha convocato gli assessori regionali al lavoro – ha comunque rassicurato. Abbiamo di fronte una persona ragionevole ed un profondo conoscitore del sistema d’impresa. Non è ben chiaro però, in verità, quanto la materia stia nelle sue mani o in quelle della Presidenza del consiglio. In ogni caso il Ministro ha ben spiegato che la delega al governo per l’ennesima riforma del mercato del lavoro dovrà essere discussa con le Regioni e, credo, con le parti sociali, almeno per non ripetere i danni prodotti da interventi affrettati e non sostenuti da dati reali, come è avvenuto con la Riforma che porta oggi il nome di Elsa Fornero.
Per quanto riguarda la delega al Governo vorrei riflettere in particolare sulla creazione di un’agenzia nazionale per l’occupazione che superi l’attuale gestione dei centri per l’impiego. Certamente controcorrente, vorrei spendere due parole a favore dei Centri pubblici per l’impiego, almeno di quelli che vedo funzionare in Emilia-Romagna.
I nostri Centri per l’impiego, 41 per una regione di quasi cinque milioni di abitanti, svolgono in via esclusiva alcuni compiti decisivi di cui spesso ci si dimentica quando si critica il sistema: l’orientamento, la certificazione e il collocamento mirato delle persone con disabilità. Servizi rivolti a fasce di popolazione in difficoltà , forse marginali in termini numerici ma decisamente crescenti. A queste funzioni, chiaramente, se ne aggiungono altre, tra cui quelle di incrocio domanda e offerta di lavoro che tuttavia funzionano se accompagnate da politiche attive del lavoro. Politiche che la delega al Governo invece separa, riproducendo la stessa divisione che caratterizzava gli uffici di collocamento, ovvero consegnando la formazione, prima tra le politiche attive, alle Regioni e centralizzando l’orientamento, la pre-selezione e l’incrocio domanda e offerta.
Cercare occupazione a Milano o a Modena è ben diverso che a Nola o in Calabria e fatico a capire come un’agenzia nazionale possa svolgere queste funzioni efficacemente. Ma qui si ripropone il tema di uno stato centrale che pensa di occupare il territorio direttamente, ricreando vecchi uffici di collocamento, oppure semplicemente decentrando ad agenzie private e quindi rendendo inutile la struttura che si vuole creare sotto forma di agenzia.
Resta ovviamente il mistero del perché un’agenzia che riunisce lo stesso personale dei vecchi centri per l’impiego – ritenuti inutili se non di peggio – e delle agenzie nazionali già esistenti – del resto anch’esse ritenute inutili – debba divenire, semplicemente per somma, efficace ed efficiente. La verità ancora una volta è che non c’è crescita senza investimenti in infrastrutture di formazione ed orientamento (e qui mi permetto di suggerire una lettura attenta della riforma del sistema formativo realizzato in Emilia-Romagna), investimenti che l’Unione europea ha sottolineato necessari in Italia, che ancora una volta è il paese europeo che spende meno in sostegno all’occupazione.
Il disegno di legge mette in fila una serie di temi, che dovranno essere ben approfonditi, ma che non delineano ancora che tipo di paese deve uscire da questa riforma, quali profili di competitività di sistema devono essere assunti come nostro obiettivo collettivo e quindi quale tipologia di competenze e capacità riteniamo necessari per il rilancio non solo della economia ma del paese nel suo insieme. Abbiamo poco tempo, ma credo si possa usare bene per dare a questa ennesima riforma un senso ed un significato che ancora una vota non mortifichi i nostri giovani.
(*) Assessore scuola, formazione professionale, università e ricerca, lavoro della Regione Emilia-Romagna