Si chiama lavoro a scacchi. E non ha nulla a che fare con pedoni e alfieri. Funziona così: un ristoratore assume un cameriere per lavorare 20 ore a settimana. Contratto part-time regolare, retribuzione altrettanto regolare. Il cameriere, però, lavora 60 ore: il pagamento delle 40 ore aggiuntive è in nero, l’importo deciso in autonomia dal titolare. Ma in un settore che secondo l’ultimo rapporto dell’Ispettorato nazionale del lavoro ha un tasso medio di irregolarità del 73%, il lavoro a scacchi è comunque un modo per provare a cautelarsi in caso di controlli: c’è un contratto da esibire per dire che quel cameriere è retribuito il giusto. Anche se in realtà lavora il triplo e guadagna molto poco.
Quella del lavoro a scacchi è solo una delle sfaccettature della questione salariale che è ritornata al centro del dibattitto dopo che alcune associazioni di categoria hanno lamentato il fatto di non riuscire a trovare lavoratori. Sono introvabili 150000 tra camerieri, cuochi e barman, così come i bagnini e gli altri stagionali che lavorano nel turismo. Poi c’è il disallineamento tra domanda e offerta che riguarda i profili con competenze elevate: le imprese, ad esempio, non riescono a intercettare i tecnici informatici. Nel primo caso la colpa è ricaduta sul reddito di cittadinanza, nel secondo su una formazione non adeguata. Ma l’analisi del fenomeno deve contemplare anche un’altra considerazione: il lavoro è pagato poco e sempre di meno.
L’Italia, secondo le tabelle Eurostat, è il Paese che l’anno scorso ha perso più di 39,2 miliardi di salari e stipendi, passando da 525 a 486 miliardi. La Germania ha perso appena 13 miliardi, tra l’altro su una massa salariale di oltre 1.500 miliardi. La Francia ha lasciato per strada 33 miliardi, ma nonostante questo la massa è comunque a quota 898 miliardi. Le buste paga dei lavoratori degli altri Paesi europei hanno pagato un prezzo decisamente più contenuto. Da noi, invece, non solo si è registrato il tonfo più consistente, ma si è anche azzerata la crescita dei salari che si era iniziata a registrare dal 2015 in poi con la decontribuzione sulle assunzioni.
Il virus ha aggravato una situazione che era già debole. Prendiamo i dati Eurostat del 2019: l’Italia, con 2.102 euro mensili, è a metà classifica in Europa in tema di stipendi lordi. Ma con eccezione del blocco dei Paesi dell’Est, della Grecia e della Spagna, tutti gli altri ci superano: non solo la super Svizzera, che può contare su uno stipendio lordo mensile di 5.625 euro, ma anche la Francia (2.369 euro), la Germania (2.891 euro) e altri 11 Paesi. Un altro elemento che mette in luce la debolezza degli stipendi italiani è il fatto che un laureato in Belgio prende il doppio rispetto a un laureato in Italia. In Germania quasi il doppio, in Svizzera 2,5 volte in più.
Ora è evidente che gli stipendi vanno calibrati sul costo della vita (in Svizzera decisamente più alto rispetto all’Italia), ma quelli italiani sono cresciuti molto meno che altrove e soprattutto le cose peggiorano quando si passa dal lordo al netto. Siamo, infatti, il Paese che ha un cuneo fiscale pari al 46%, un dato che ci colloca al quarto posto della graduatoria dei lavoratori più tartassati tra i Paesi Ocse, ben 11,4 punti sopra la media. I salari lordi italiani sono tassati del 29% contro il 24,9% della media. Tradotto in soldi, il costo del lavoro si attesta a quasi 49mila euro l’anno per ogni lavoratore single senza figli.
Una ricerca della Fondazione Giuseppe Di Vittorio traccia un quadro aggiornato del disagio salariale in Italia. Sono 5,2 milioni i lavoratori che percepiscono un salario inferiore ai 10mila euro lordi annui e in totale sono 9,4 milioni i lavoratori dipendenti che sono al di sotto del salario medio lordo annuale totale (21,9 mila euro).
Ma anche i dipendenti full-time a tempo indeterminato e senza discontinuità – categoria che include tutte le professionalità più stabili e più retribuite – hanno un salario nettamente inferiore rispetto a quello medio annuale tedesco e francese calcolato dall’Oecd, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo economico.
Infine, ci sono tre milioni di lavoratori poveri. Guadagnano meno di 9 euro all’ora. Anche loro esistevano prima della pandemia: i working poor. Oltre un milione sono lavoratori giovani (con meno di 30 anni) e 1,4 milioni hanno un’età compresa tra i 30 e i 49 anni. Quasi tutti sono operai (il 79%), il 12,3% rientra invece nella categoria dei dirigenti e degli impiegati.
Più in generale la pandemia ha impoverito le famiglie italiane. Secondo i dati di una ricerca del Censis il 5,5% ha visto ridursi il reddito di più del 50% rispetto a prima della pandemia, il 9,1% ha dichiarato una riduzione tra il 25% e il 50%, il 16% una riduzione inferiore al 25 per cento. Il 43,2% dei lavoratori autonomi ha dichiarato invariato il proprio reddito rispetto a prima della pandemia, contro il 66,5% dei lavoratori dipendenti. In media, 3 famiglie su 10 hanno subito una riduzione del reddito.
Bagnini, camerieri, addetti alla reception negli hotel. Sono una parte dei lavoratori del turismo che vivono in prima persona la deregulation dei contratti. Dai tre contratti che davano copertura all’intero settore, fatto di circa 3,5 milioni di lavoratori, si è passati a una disarticolazione per comparti. La ristorazione è andata per conto suo, così come il comparto dell’accoglienza. Lo stesso i tour operator e le agenzie di viaggio, così come i lavoratori della cultura e quelli che lavorano nelle fiere e nel settore congressi e convegni.
Cosa significa questa disarticolazione lo spiega a Huffpost Fabrizio Russo, segretario nazionale della Filcams Cgil, la categoria del sindacato che rappresenta i lavoratori del turismo: “Prima sostanzialmente si applicava lo stesso contratto a tutti i lavoratori e quindi le condizioni salariali, compresi gli incrementi, erano uguali per tutti. Con la disarticolazione si è arrivati a rinnovare il contratto scaduto nel 2013 in tempi diversi, creando disparità: il settore alberghiero, ad esempio, l’ha rinnovato nel 2014, ma la ristorazione solo nel 2018”. Gli anni di ritardo sono stati anni in cui gli stipendi sono rimasti fermi, senza adeguamenti al costo della vita. Con eccezione di quello della ristorazione, tutti gli altri non sono arrivati a stesura, cioè a un testo formale condiviso. Sono entrati in vigore, ma anche questo elemento di inconcludenza è la spia di una deregulation che ha infettato il settore. E questi sono i contratti firmati dai sindacati e dalle associazioni di categoria più conosciuti.
Poi ci sono i contratti pirata, quelli sottoscritti da organizzazioni sindacali capestri. Ancora i casi il cui il contratto non c’è e tutto viene deciso dal titolare dell’attività: comunicazione a voce al dipendente nella modalità prendere o lasciare. In questi casi la tutela delle condizioni dei lavoratori è affidata ai controlli degli ispettori del lavoro, che ovviamente non possono riguardare tutte le attività. È una sacca in cui si ritrovano i circa 500mila stagionali estivi. Lavorano spesso 7 giorni su 7, senza giorni di riposo. Nei ristoranti, sulle spiagge, negli alberghi. Sono bagnini, camerieri, receptionist. Possono guadagnare anche 3-4 euro all’ora. Sono molto spesso invisibili: sotto una certa soglia non sono “visti” dall’Inps. Qui dilaga il lavoro nero. Lavorano in ambiti – la ristorazione e l’accoglienza – che registrano irregolarità superiori al 70 per cento.
Gli inattivi sono cresciuti per l’effetto sfiducia della pandemia. Una parte di questi lavoratori si è riciclato in altre attività: ha scelto la logistica, il settore dei rider, più in generale i servizi. Altri hanno deciso di restare fermi e di aspettare un lavoro con una paga più alta: sono quelli che non cercano il lavoro. Si chiamano inattivi: 711mila in più per via della pandemia che ha innalzato il livello dello scoraggiamento. Tra di loro ci sono circa 3 milioni di persone che potrebbero lavorare, un segmento che in un solo anno è aumentato di 217mila unità. Scrive il Censis: “La ricerca di un nuovo lavoro – sia nel caso di persone che il lavoro l’hanno perso, sia nel caso di persone che si apprestavano a cercarlo per la prima volta o dopo un periodo di assenza dal mercato del lavoro – è stata scoraggiata da un contesto percepito come troppo complesso per poter essere affrontato con i propri mezzi e con le proprie risorse”.
Colpa del reddito di cittadinanza? Appena qualche giorno fa è stato il presidente dell’Inps Pasquale Tridico a ricordare che quasi tutti gli stagionali, dai cuochi ai camerieri, non percepiscono il reddito di cittadinanza. E questo per rispondere a chi, come Federturismo, sostiene che non si trovano gli stagionali perché “molti percettori del reddito di cittadinanza preferiscono continuare a percepire il sussidio al posto di rientrare nel mondo del lavoro”. Chi è rimasto fermo durante la pandemia ha ricevuto l’indennità (un bonus) riservato proprio ai lavoratori stagionali. Ma il bonus, rifinanziato più volte, è destinato ad estinguersi in linea con gli altri aiuti anti Covid. In altre parole un bagnino non ha una quota fissa come il reddito di cittadinanza. Tra l’altro anche lo stesso reddito ha avuto negli ultimi quattro mesi un importo medio di 580 euro per nucleo familiare, un importo che non lo fa apparire concorrenziale rispetto a un posto di lavoro.
È la Naspi, invece, l’elemento che potrebbe aver distolto alcuni stagionali dal lavorare. I requisiti per l’indennità di disoccupazione, infatti, si sono fatti meno rigidi con la pandemia: fino a fine anno, ad esempio, per ottenerla non è più necessario aver lavorato almeno 30 giorni nell’anno precedente. E a rendere la Naspi più concorrenziale rispetto al lavoro è anche l’aumento dell’importo: per le indennità in pagamento dal primo giugno, infatti, è stato sospeso il cosiddetto décalage, cioè la riduzione del 3% mensile dell’assegno che scatta dal quarto mese in poi.
*da Haffington Post, 14/06/2021