È faticoso in Italia superare la fase dell’emergenza dall’epidemia Covid per imboccare la via delle riforme.
Si sprecano i buoni proponimenti, si indicano ipotesi concertative, si evocano di tanto in tanto patti sociali.
Ma poi tutto si riduce a continui bracci di ferro tra le varie posizioni di bandiera, evocando quasi sempre proposte che appartengono al passato.
Insomma non si coglie l’opportunità offerta dal cambiamento che ha investito l’Europa. La politica dell’austerità messa al servizio di un totem rappresentato dal mercato è fallita.
C’è oggi la possibilità di imboccare finalmente la strada delle riforme.
C’è bisogno di passare dalla politica dei monologhi al dialogo avendo ben chiara la necessità di ridurre le diseguaglianze e di ripristinare la libertà delle opportunità da conseguire sul lavoro per i giovani.
Il movimento sindacale deve ritrovare e riscoprire l’unità. Ha un grande ruolo. Deve arricchire le proprie iniziative. Non può limitare la sua azione alla necessaria difesa dell’occupazione e del salario.
Oggi i lavoratori, i giovani, le donne vanno non solo difesi ma devono essere valorizzati. Occorre investire sul loro sapere e sulla loro conoscenza. Occorre partecipare e concorrere allo sviluppo dell’economia.
Alla fine del secolo scorso le ‘Partecipazioni statali’ sono state liquidate solo per fare cassa, non per migliorare la capacità del nostro sistema produttivo di competere sul mercato.
Non possiamo ora assistere, sgomenti, a quello che sta avvenendo.
Le ultime grandi fabbriche italiane emigrano all’estero, o, come avviene nel campo delle telecomunicazioni, sono ghiotte preda di fondi o di imprese radicate fuori dal nostro Paese.
Non è sufficiente invocare norme restrittive per impedire questa inesorabile decadenza della nostra economia.
Occorre intervenire a tutto campo.
Nel 1976 la FLM stipulò un contratto innovativo nell’industria metalmeccanica. Vennero conquistati diritti di informazione sulle scelte produttive delle aziende. Si contrattò lo spostamento al Sud di fabbriche progettate al Nord. Si definì nel 1980 il Fondo di Solidarietà con il quale i lavoratori con una ritenuta del 0,50% sulla propria retribuzione potevano partecipare e condizionare lo sviluppo dell’economia.
Obiettivi che non sempre si realizzarono per l’aggravamento della situazione politica (fine del compromesso storico), per il terrorismo, per la divisione sindacale.
Oggi ci troviamo in uno scenario diverso, ove la partecipazione del mondo del lavoro è possibile. È necessaria. È utile al Paese. Rafforza la democrazia, valorizza il lavoro.
Basti pensare ai numerosi Fondi Integrativi al welfare conquistati dai sindacati. Sono cifre consistenti. Perché non utilizzarli in parte, con le opportune modifiche legislative, per partecipare alla ristrutturazione, alla modernizzazione, alla digitalizzazione del nostro sistema produttivo? È una opportunità da cogliere.
Il 26 giugno del 1920, all’indomani delle elezioni del 1919 le prime con il suffragio universale che avevano visto il successo dei socialisti e dei popolari, Filippo Turati con un discorso in Parlamento propone di ‘Rifare l’Italia’.
Ecco cosa disse tra l’altro: … E qui mi cade acconcio dir subito, che, appunto per questa psicologia e per i tempi mutati, non ci riuscirà di industrializzare il nostro Paese se prima non faremo il «nuovo Statuto dei Lavoratori», che li faccia, se non ancora arbitri assoluti, almeno partecipi della produzione, e non già passivamente partecipi agli utili, secondo certe vedute pelosamente filantropiche, ma partecipi nella gestione, nella direzione, nel controllo della produzione nazionale, ossia condòmini veri.
Ora – prosegue Turati – la borghesia italiana (e qui presto degli argomenti agli amici massimalisti) è sempre stata ignava, ebbe – salvo poche eccezioni – visioni limitate, umili, ciecamente pedisseque dell’estero, con una pronunciata tendenza a farsi parassita dello Stato, ad abbarbicarvisi, anziché cercare nella creazione nello studio, nel miglioramento progressivo dell’industria e dell’agricoltura, la propria floridezza e quella che sarebbe la sola sua ragion d’essere…”