Chissà perchè nessuno ha ancora provato a trarre una serie Tv dalle vicende di Telecom Italia. Eppure, alcuni decenni di vicissitudini consentirebbero di realizzare parecchie e appassionanti stagioni degne del Trono di Spade, sia pure esponendosi al rischio di una certa ripetitività. Infatti, se pure cambiano i personaggi, vale a dire azionisti e vertici, alla fine la trama base resta la stessa: dalla pessima privatizzazione del 1997 in poi, quasi niente in Telecom, oggi ribattezzata Tim, è andato per il verso giusto. Ogni volta c’è stato un amministratore messo in discussione dagli azionisti, ogni volta c’è stato un tentativo di resistenza, ogni volta è arrivato qualcuno a sparigliare, organizzando scalate e promettendo investimenti e rilancio.
Le scalate in effetti non sono mancate, ma il rilancio è sempre rimasto sullo sfondo, soprattutto a partire dal 1999, anno in cui la Telecom guidata all’epoca da Franco Bernabè veniva conquistata dai Capitani Coraggiosi di Roberto Colannino & soci, con l’appoggio convinto del governo di allora, guidato da Massimo D’Alema. Indimenticabile il commento attribuito a Guido Rossi su “Palazzo Chigi unica merchant bank dove non si parla inglese”. Di quelle antiche vicende parla assai diffusamente proprio Bernabè, in un libro uscito un po’ in sordina a giugno 2020, ma che meriterebbe di essere letto e riletto, perchè spiega molte cose.
Sta di fatto che quell’ operazione appesantì col piombo di un indebitamento monstre le ali di Telecom, che da allora ha avuto sempre seri problemi a volare. E non bastarono gli sforzi dei successivi proprietari e vertici, da Marco Tronchetti Provera, al Bernabè Bis del 2009, e poi via via fino all’attuale gestione di Luigi Gubitosi (pur abilissimo risanatore di conti, come dimostrò sia in Fiat che in Wind), a risolvere la faccenda. Il risultato è che da decenni Telecom non ha le risorse sufficienti per fare gli investimenti necessari richiesti dalle nuove esigenze di moderna connessione. Ed è dunque inevitabile restare indietro rispetto alle altre compagnie di tlc. Fabrizio Solari, leader del sindacato di categoria della Cgil, ricorda che Deutsche Telekom, cioè la gemella tedesca di Tim, vale oggi circa 60 miliardi di euro, mentre Tim ne vale circa 6. E dire che 30 anni fa, cioè prima delle scalate, erano aziende di pari peso.
E adesso ci risiamo. La novità di questa settimana è che il fondo Usa Kkr, il secondo fondo di investimento mondiale, ha fatto le sue avances, annunciando di voler raccogliere attraverso un’Opa il 100% del capitale di Tim. La differenza, rispetto al passato, è che questa volta non c’è stata particolare reazione dal mondo politico, e tutto sommato nemmeno dal governo, che resta alla finestra in attesa degli eventi. A parte l’ovvia irritazione di Vivendi, che ha infatti respinto come non congrua l’ipotesi offerta da Kkr, solo i sindacati sono saltati sulla sedia, dichiarando fortissime preoccupazioni per il destino della società e chiedendo al governo di esercitare il golden power, in quanto azienda strategica per il paese.
L’arrivo del Fondo Kkr rischia soprattutto, secondo Cgil, Cisl e Uil, di far saltare il piano industriale faticosamente messo a punto circa un anno e mezzo fa, che rispondeva a due esigenze: dotare il paese di una rete di nuova generazione in grado di soddisfare tutte le esigenze, e garantire i 40 mila dipendenti ancora rimasti in Tim dopo le molte ristrutturazioni del passato. Secondo il sindacato, insomma, su una questione delicata e strategica come le Tlc non si può immaginare di compiere operazioni di puro mercato, anche se proficue, ma vanno tenuti in considerazione molti altri aspetti.
Il governo, come detto, procede con grande calma e prudenza. Il ministro dello sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, in una audizione in parlamento, ha osservato che parlare di Golden power è ”prematuro”, in quanto non c’è ancora una proposta formalizzata di Kkr, ma solo un pour parler. Il Mef, a sua volta, non si è sbilanciato, ma ha fatto notare che l’offerta del Fondo Usa risponde, in fondo, al ripetuto tentativo di convincere soggetti internazionali a investire nel nostro paese. E non ha torto: capitale fresco è esattamente quello che occorre a Tim per scrollarsi di dosso quel debito che si trascina da tre decenni, pari oggi a circa 30 miliardi di euro, e per poter finalmente guardare al futuro. Inoltre, una delle missioni più sostanziose del Pnrr riguarda la digitalizzazione del paese, ma ancora non è chiaro chi, quando e come costruirà l’infrastruttura di rete necessaria.
Ma ci sono molti altri interrogativi da sciogliere. Per esempio, una Tim che passasse armi e bagagli in mani americane aprirebbe problemi legati alla sicurezza nazionale: uno riguarda alcune società che ne fanno parte, per esempio Sparkle, la ex Italcable, sui cui cavi sottomarini, ben 600 mila km, passano le comunicazioni più delicate di mezzo mondo. L’altro è la rete, che comunque, vecchia o nuova che sia, resta la piu estesa d’Italia ed è attualmente monopolio – difeso strenuamente – di Tim. La rete infatti rappresenta il più succoso asset della società, che tuttavia non ha le risorse per modernizzarla. Senza la rete (se le venisse, diciamo, sottratta), Tim rischierebbe grosso; ma con la rete e senza i soldi per ammodernarla, rischia certamente il paese. Da tempo immemorabile siamo avvitati in questo loop, e l’arrivo degli americani potrebbe essere l’occasione per uscirne: come ha scritto sul nostro giornale un attento osservatore come Maurizio Ricci, “potrebbe essere un’occasione irripetibile”.
Come che sia, il governo prima o poi dovrà pronunciarsi, dopo aver valutato nella cabina di regia appositamente costituita da Mario Draghi i pro e i contro dell’operazione Kkr, e stabilito se concedere il via libera al fondo, e su cosa: tutta la società, o solo una parte, o nulla. Una cosa però va ricordata e cioè l’anomalia italiana di un paese che ha dato vita a un gran numero di brillanti società telefoniche, ma non è riuscito a tenersene nemmeno una: Omnitel, nata da Olivetti, è ora l’inglese Vodafone; Wind, in origine ”figlia” dell’Enel, e’ diventata egiziana, poi cinese, russa, e dio sa cosa altro; Fastweb, fondata a Milano, è oggi svizzera, e così via. Anche Iliad, la nuova e assai dinamica ultima arrivata sul nostro mercato, è francese. E nella stessa Telecom non sono mai mancati capitali e azionisti esteri: dalla spagnola Telefonica, al Fondo americano Elliott, alla francese Vivendi, che ne ha attualmente il controllo come principale azionista col 24%. Insomma: ha davvero senso rincorrere l’italianità delle tlc, quando da anni nessun operatore telefonico di rilievo è più italiano? Davvero ce le meritiamo, queste Tlc che non abbiamo mai saputo gestire adeguatamente, o non sarebbe il caso di arrendersi all’evidenza, lasciando che altri facciano, si spera, di meglio?
*da Newsletter Il Diario del Lavoro, 26/11/2021
**giornalista, vice direttore Il Diario del Lavoro