I messaggi di congratulazione a Mattarella, per il suo bis presidenziale, che giungono da tutto il mondo ma soprattutto dall’Europa, sono una specie di grande respiro di sollievo. Per tutti vale il twitter della Presidente Van Der Leyen che conclude: “l’Italia può sempre contare sulla UE”. Evidentemente, tutte le cancellerie hanno vissuto con apprensione l’elezione sin dal primo giorno. E non a torto. Lo scontro politico vero – sia pure mantenuto a fatica nell’ambito della coalizione di Governo, ma coinvolgendo maldestramente anche persone di spiccata qualità – ha riguardato da che parte poteva pendere il pendolo della collocazione dell’Italia in Europa. “E’ stata una decisione spartiacque nella vita della Repubblica, perché conferma il valore dell’attuale ricetta di stabilità italiana nella turbolenta stagione del populismo europeo”(Montanari, Il garante della stabilità, Repubblica, 30/01/2022)
I sovranisti ce l’hanno messa tutta per mettere nell’angolo gli europeisti. Fino a creare scomposizioni all’interno di alcuni partiti, facendo emergere le componenti dalla vocazione alla Orban: prendere i soldi europei, per farne il comodo proprio, specie in fatto di diritti civili e solidarietà sociale. Fallito nell’ultima notte questo tentativo, sono stati costretti a tenersi sia Mattarella che Draghi. Un binomio gradito alla stragrande maggioranza degli italiani e agli europeisti dell’Unione. L’onda lunga del solidarismo, come matrice della solidità dell’Europa, nello stesso giorno si confermava in Portogallo con la vittoria dei socialisti del premier Costa.
Però, i conti non sono stati fatti una volta per tutte. Gli europeisti di destra, di centro e di sinistra in Italia hanno vinto un importante round, ma la partita non è chiusa. L’Europa potrà proseguire il suo cammino verso una coesione economica, sociale e politica soltanto se l’Italia saprà dare un positivo contributo su tre fronti: il successo del New Generation EU, il superamento del Patto di Stabilità, l’affermazione di una politica estera comune.
Sull’attuazione del PNRR, la spada di Damocle del ritardo (e conseguente blocco delle tranches da Bruxelles) penzola pericolosamente, per difficoltà oggettive (la transizione green e digitale si dimostra piena di difficoltà specie sul piano sociale e del lavoro), per limiti gestionali (alcuni ministeri sono in ritardo e molti Enti Locali chiamati nel 2022 a gestire direttamente i fondi rischiano, come per la programmazione comunitaria, di frenare il processo, non sono in grado di fare progetti e per continue emergenze (oltre la pandemia, c’è la crisi energetica che incombe sulle prospettive congiunturali). Il mantenimento del miracoloso cronoprogramma imposto sinora da Palazzo Chigi non è soltanto un problema di efficienza operativa, ma di volontà politica. E’ difficile che dai partiti della coalizione possa giungere quel sostegno che è necessario per rendere spedito il lavoro del Governo. La maggior parte di essi hanno problemi interni, acuiti dalla conduzione zigzagante della rielezione del Presidente della Repubblica. La miglior cosa che possono fare è continuare ad astenersi dal gettare sassi sui binari.
Soltanto dal fronte delle parti sociali potrebbe venire quel sostegno, negoziato con serietà, per dare un passo celere agli investimenti e all’occupazione. Certo, l’atteggiamento della Confindustria pieno di riserve nei confronti del Governo circa la legge di bilancio e l’insistenza della CGIL, dopo uno sciopero generale di dubbia efficacia, di voler procedere a piccoli passi, non consentono di dare per scontato che ciò possa accadere. Ma la rielezione di Mattarella e la riconferma di Draghi potrebbe convincere i soggetti sociali più riluttanti a scegliere di “pensare in grande”.
Un fallimento del PRNN non solo nei tempi, ma soprattutto nei contenuti, sarebbe deflagrante per la tenuta del sistema Paese e benzina in Europa. La prospettiva di dare forma strutturale alla politica economica europea franerebbe pesantemente. I fautori del ripristino del Patto di stabilità vecchia maniera avrebbero un ghiotto motivo per alzare la voce ed affossare il tentativo di attrezzare l’Europa con una politica fiscale ed economica di dimensione continentale.
Le proposte di dare sostanza a questo tentativo sono in stato di avanzata elaborazione. Ma non basta. La posta in gioco è di alto profilo. Infatti, questo passaggio sarebbe esiziale per trasformare la società europea da sommatoria di popolazioni – sia pure ricche di tradizioni, culture e identità – in una comunità che si riconosce in un unico, irrinunciabile destino. L’Italia deve sia mettere a frutto la spinta del PNRR a realizzare riforme non più rinviabili e investimenti vitali, sia sentire la responsabilità di non fare il vagone frenante di questa evoluzione.
Infine la questione annosa della politica estera europea. La vicenda dell’Ucraina prima di essere una competenza della Nato, dovrebbe essere un problema dell’Unione Europea. Ma senza quella “maggiore deterrenza europea” – proposta da Draghi e non presa in blocco da Macron, in quanto gestore del semestre francese della Presidenza del Consiglio della UE – non si attutisce lo scontro diretto tra Russia e Stati Uniti. E questo complica la definizione di una nuova “carta” di convivenza strategica tra Nato e Russia.
Anche a partire da questo fronte, tanto il sistema politico italiano quanto le parti sociali non possono stare alla finestra ma devono spendersi per un ruolo più costruttivo del nostro Paese in seno alle diverse anime che convivono nell’UE per arrivare, verosimilmente di volta in volta, al più presto a decidere insieme agli altri Paesi di parlare con una voce sola sulle questioni internazionali. Incombono i problemi dell’immigrazione, della stabilità del panorama mediterraneo, della gestione sistemica delle pandemie. Dall’alto della dimensione nazionale si possono soltanto subire; ci vuole il grattacielo europeo per poterle dominare.
Come ci ricorda Sassoli, “l’Europa ci può aiutare a stare meglio al mondo”. Non è un auspicio, è una prospettiva concretamente vera.