In questi giorni, nel corso delle consultazioni da parte del governo sul Documento di economia e finanza (Def), che definisce la manovra di politica economica e finanziaria per il prossimo anno, i sindacati Cgil, Cisl e Uil si sono presentati ognuno con un proprio, diverso documento. Si tratta di un fatto nuovo, a mio avviso preoccupante, perché del tutto inusuale rispetto alla prassi normale, nella quale, specie in occasioni rilevanti come questa, i sindacati confederali si presentavano con un documento unitario per conferire ai loro giudizi e proposte maggiore forza e responsabilità proprie pressoché dell’intero sindacato.
Se facciamo riferimento alle ultime prese di posizione sindacali, spesso diverse, fino alla clamorosa rottura della proclamazione dello sciopero generale del dicembre scorso da parte di Cgil e Uil senza la Cisl, la cosa può apparire normale, ma dal punto di vista del rapporto sindacati-governo il fatto acquista il formale significato di fine dell’azione unitaria del sindacato confederale, che può dar vita ad un generico pluralismo sindacale, che coinvolge anche altri sindacati minori, rispetto al quale l’orientamento politico del governo può determinare scelte strumentali e discutibili.
Non a caso in passato, anche dopo la mancata conclusione del processo di unità sindacale, l’unità d’azione confederale pressoché è stata la regola. Anche nei momenti successivi di rottura clamorosa come quella sul rapporto tra inflazione e-scala mobile del 1984, il fatto diede luogo a un duro confronto tra i protagonisti con la partecipazione interessata del dibattito pubblico. Ora invece la rottura è avvenuta in modo diplomatico e silenzioso, secondo i rapporti consolidati di buon vicinato, a mio avviso per due ragioni.
Innanzitutto, perché attualmente i sindacati confederali vivono l’attuale momento di emergenza del Paese e del mondo del lavoro, provocato dalla pandemia e dalla guerra, con uno spirito di relativa tranquillità. Ad esempio, i congressi della Cisl in corso, e la stessa Cgil che inoltre fruisce della rendita del sindacato maggioritario, presentano la realtà di un sindacato forte e stabile, con la tenuta se non l’aumento degli iscritti, e impegnato in una pluralità di servizi e di iniziative di solidarietà. Si è invece indebolita l’azione più propriamente sindacale di mobilitazione e contrattazione collettiva nei luoghi di lavoro e nel Parse. Nel complesso, un ruolo generale ridimensionato rispetto al passato, ma il confronto con l’odierna realtà della politica e dei partiti determina, nella coscienza dei sindacalisti, la convinzione che i consensi raccolti nella prima attività compensino i limiti nella seconda.
Il secondo motivo nasce dal fatto che sulla realtà del lavoro e sulla condizione dei lavoratori, oltre all’emergenza pandemica e bellica, si concentrano gli effetti della grande trasformazione dovuta alla rivoluzione tecnologico-digitale e ai processi di transizione ecologica ed energetica. Una trasformazione che per estensione e profondità appare come una delle maggiori della storia dell’umanità e richiede un enorme salto di qualità nelle relazioni industriali tra le parti sociali, soprattutto innovando gli obiettivi e le regole della contrattazione collettiva come strumento indispensabile per costruire regole e soluzioni più efficaci rispetto alla realtà perché frutto delle scelte e delle mediazioni dei soggetti protagonisti del nuovo lavoro.
L’esperienza del passato ha dimostrato che, di fronte a processi di trasformazione così diffusi e profondi in tutto il processo produttivo e organizzativo, sia necessario aggiungere, ai tradizionali rinnovi contrattuali di categoria, una iniziativa contrattuale a livello interconfederale per estendere a tutti i diversi settori un insieme di nuove regole che in futuro potrebbe essere trasferite, per via legislativa, in una nuova versione dello Statuto dei lavoratori.
La strategia attuale del sindacato che privilegia il rapporto con il governo tramite la legge, mantiene il limite di agire con uno strumento rigido, staccato dalle concrete condizioni di lavoro, che l’aggravante dell’ulteriore divisione del sindacato di fronte alla possibilità di realizzare un patto sociale con relativa politica dei redditi per tutelare il potere d’acquisto dei salari di fronte all’inflazione, rende ulteriormente inadeguata. Rappresentano esempi concreti di realizzazioni tramite questa linea, la progressiva estensione degli ammortizzatori sociali, l’introduzione di quote di giovani e donne nelle assunzioni, il taglio del cuneo fiscale legato all’incentivazione della produttività e la difesa dei salari. Misure anche positive in sé ma che concretizzano una linea in direzione del lavoro assistito, mentre l’esigenza fondamentale è quella di regolare e incentivare il lavoro all’interno del suo rapporto.
Credo quindi necessario che il sindacato confederale ritorni, attraverso il dialogo e un confronto anche conflittuale, per costruire una strategia comune, da realizzare con l’azione unitaria all’interno di un sistema di relazioni industriali innovativo e proiettato a livello politico con la definizione di un patto sociale governo-parti sociali. Il ruolo del sindacato è troppo importante e insostituibile per il futuro dell’Italia e del mondo del lavoro. Per questo rimango convinto che, di fronte agli impegni futuri, il nostro Paese e gli stessi lavoratori, tre sindacati confederali divisi non se li possono permettere.