La rivista Time ha pubblicato, nei giorni scorsi, un’ampia e approfondita intervista a Lula. Lo scalpore sollevato qui in Brasile, è stato notevole. In primo luogo perché la rivista statunitense presenta Lula come il futuro Presidente del Brasile e anche perché gli dedica la foto di copertina. Questa foto ha circolato immediatamente, assumendo un valore simbolico, dal momento che, solo qualche settimana fa, la macchina propagandistica di Bolsonaro, aveva fatto circolare un falso con l’immagine del capitano, come se fosse stata veramente pubblicata daTime. Un’ennesima fake news.
Sarà quindi “Lula Second Act”, come titola la celebre rivista? Qui sono in molti a crederlo e anche, appassionatamente, a sperarlo. Le elezioni generali si terranno il 2 ottobre 2022. A poco più di quattro mesi, i sondaggi danno Lula al 40-44% delle preferenze e Bolsonaro a poco più del 30%. Secondo gli esperti, chi è in testa nei sondaggi e con questo margine, in questa fase della corsa presidenziale, sarà il vincitore delle elezioni. Con queste percentuali, inoltre, c’è una forte probabilità che Lula venga eletto Presidente del prossimo quadriennio, già al primo turno. In ogni caso, si può già dire che la competizione, nei prossimi mesi, sarà tra Lula e Bolsonaro: molto screditato quest’ultimo e in pieno recupero di popolarità l’ex leader sindacale, fondatore del Partido dos Trabalhadores (PT).
Lula si presenta oggi come “l’unica speranza per il popolo brasiliano”, nonostante le accuse, i processi e i suoi 580 giorni di prigione, o forse proprio in virtù di tutto questo. La forte sensazione di delusione e sconfitta che aveva accompagnato le notizie sulla corruzione imputata a Lula, oggi, nel sentire comune, ha lasciato spazio ad una forte speranza. Dalle accuse, mai provate, sono emerse tutte le scorrettezze commesse dai giudici, nei processi montati contro di lui. Processi che non è esagerato definire “pilotati” visto che avevano portato l’ex Presidente alla prigione e all’esclusione dalla competizione elettorale del 2018.
Il terzo classificato, con un risultato insignificante, rilevato attorno all’8%, è Ciro Gomes, figura politica originariamente di centro-sinistra, ma oggi alacremente impegnato a dimostrarsi antagonista di Lula, nel tentativo di conquistare la simpatia degli incerti (circa il 20% degli intervistati) e del ceto medio moderato che voterebbe per uno dei due candidati più per contrapposizione all’altro concorrente che per appartenenza politica. Ciro Gomes sembra emergere come espressione di un’area molto ambita da diversi candidati di centro. È dall’anno scorso, che l’establishment brasiliano e soprattutto i grandi mezzi di comunicazione, stanno lavorando a creare una “terza via” che fosse alternativa all’indecenza del Capitano e alla prevedibile ascesa di Lula. Ma sembra che questa ipotesi di mezzo non ce la faccia proprio a decollare. Sinteticamente: in un paese con grandi e palesi disuguaglianze, come il Brasile, chi si presenta all’elettorato deve essere in grado di esprimere un programma capace di affrontare queste contraddizioni. Di fatto, del programma della “terza via” non si ha nessuna notizia, se non quella di essere contro la… polarizzazione.
A poco più di quattro mesi dal primo turno rimane, comunque, la sensazione che ancora non tutti i giochi siano stati fatti. Ci sono troppi semi piantati dal bolsonarismo nel terreno sociale e politico che consigliano di usare prudenza. Prima di tutto ci sono gli interessi dei ceti favoriti o cooptati dall’azione di governo dell’ex-capitano e sono quelli espressi dagli appartenenti alle Chiese Evangeliche, dai ricchi latifondisti, dai fautori della liberalizzazione del possesso e dell’uso delle armi e, dulcis in fundo, da una parte importante del ceto militare. Non sarà facile smontare questo coacervo di interessi che ha rappresentato la base per la nascita e l’affermarsi del “mito” Bolsonaro. Nessuno di questi soggetti sembra intenzionato a rinunciare alle proprie prerogative, acquisite in questi quattro anni.
Da non trascurare, ovviamente, il capitale finanziario che, però, come sappiamo, pur essendo, nelle sue mille articolazioni determinante, è per sua natura flessibile, duttile, volatile. La finanza, nelle sue scelte è sempre attratta dalle possibilità di fare affari con le privatizzazioni del patrimonio pubblico e dei servizi, lo smontaggio dello stato sociale e, in generale, comunque, con l’indebitamento degli Stati e dei Governi. Non si può dimenticare, infine, che culturalmente – e quindi elettoralmente – c’è un ceto medio che non ha mai digerito l’idea di avere un Presidente “figlio del popolo”. Di un nordestino che è arrivato al massimo livello del potere politico grazie alle sue capacità e senza dover o poter esibire titoli di studio. Da questa fascia di popolazione, Lula è vissuto quasi come se fosse un usurpatore, uno che ha stravolto le regole del gioco e in particolare, ha frustrato le aspettative di chi è stato allevato nel benessere e nelle opportunità “a portata di mano”, in un paese gravido di diseguaglianze gridanti e di discriminazioni sempre presenti e che lo marcano, strutturalmente, nel profondo.
È ragionevole pensare che le diverse figure del bolsionarismo, armate o no, difficilmente saranno disposte a cedere il potere, in una normale competizione democratica. Non è un caso, infatti, che Bolsonaro in prima persona, sostenuto dagli alti vertici militari, sia impegnato, quotidianamente, a mettere in dubbio il futuro processo elettorale e a denunciare i brogli a cui sarebbe esposto: una postura alla Trump attivata preventivamente. Una situazione paradossale costruita sull’opposizione al proprio governo. Ma la provocazione e il paradosso sono il vero terreno di azione del capitano. Da sempre. Tutto questo non fa bene alla vita democratica, ovviamente e neppure all’economia, in forte crisi da deindustrializzazione, con conseguente riduzione dell’occupazione e l’espansione delle terziarizzazioni e delle precarietà. E nuoce all’immagine internazionale del Brasile, già messo all’indice a livello globale, per la complice politica di aggressione ai suoi santuari ambientali.
Nonostante l’entusiasmo dei militanti e le speranze delle fasce più colpite dalla miseria e dalla fame, qui si dice, con un’espressione sintetica, che sarà possibile sconfiggere il disastroso governo Bolsonaro, ma non si riuscirà ad uscire facilmente, dal bolsonarismo. E sono proprio gli stessi dirigenti del PT a dirlo e a trasmettere alla militanza messaggi di prudenza sostenendo che bisogna mantenere il massimo di attenzione fino al giorno dei risultati definitivi (e anche oltre). Anche se razionalmente è da escludere, qui si parla sempre più frequentemente della possibilità di golpe o, addirittura, di autogolpe. Forse più realisticamente bisognerà prepararsi a probabili, quanto inverosimili “colpi di scena” che puntino a rimettere in discussione tutto. Visto che Bolsonaro non schioda dal suo 30% e che sono sempre meno quelli che sono disposti a scommettere sulla riedizione del suo governo fallimentare. Il minimo che ci si può aspettare è un ulteriore inasprimento del confronto politico, con un’intensificazione delle campagne di odio e di produzione di fake news. Questo è il minimo. Addirittura si teme qualche clamoroso atto o giudiziario o addirittura personale nei confronti di Lula.
Il clima politico, quindi, è di una forte instabilità e tiene in allerta le forze più genuinamente democratiche. È una realtà, quella del gigante sudamericano, che richiederebbe un’attenzione raddoppiata, a livello internazionale, in particolare da parte dell’Europa. Pur nella consapevolezza della priorità che ricopre la guerra dell’Ucraina, a seguito dell’invasione russa, è importante ricordare che, anche in questo campo, un cambiamento al vertice del Brasile, potrebbe dare un nuovo ruolo alle forze della pace, considerando il protagonismo esercitato nel BRICS, da parte del Brasile, durante i governi Lula e Dilma. Pur non trascurando i rischi che abbiamo appena evidenziato, è legittimo riflettere su qual è la strategia delle forze progressiste impegnate a sostenere la candidatura di Lula. Da una lettura attenta, anche se non specialistica, è possibile individuare l’emergere di almeno due linee di lavoro: una di carattere strettamente politico-elettorale e l’altra rivolta all’area sociale.
Edotti dalle esperienze precedenti, i quadri del PT e Lula in particolare, in ogni occasione pubblica spiegano a chiare lettere ai militanti e all’elettorato che occorre impegnarsi ai diversi livelli, in ogni ambito, perché non basta arrivare alla presidenza per governare il paese. La linea strategica politico-istituzionale punta a raggiungere, nelle elezioni di ottobre prossimo, non solo l’elezione di Lula, ma anche una maggioranza parlamentare solida e leale. È per questo che occorre costruire un’ampia alleanza di centro-sinistra. La scelta di Geraldo Alkmin come Vicepresidente nella lista di Lula, da visibilmente questo segno. Alkmin, è stato per quattro mandati il Governatore dello Stato di São Paulo, lo Stato più popoloso del Brasile ed è un ex dirigente di spicco del PSDB, il partito fondato da Fernando Henrique Cardoso e da Mario Covas. In passato Alkmin è stato anche rivale di Lula in una delle elezioni presidenziali. Un rivale leale. Alla costruzione dell’alleanza, si sta lavorando da mesi. Questa via, prevede la formazione delle coalizioni necessarie, anche nei diversi Stati, per eleggere i Governatori, seguendo lo stesso schema: che siano espressioni di un centro-sinista unito e che possano contare su maggioranze solide anche nelle Assemblee Legislative locali.
In campo sociale, la strategia è orientata a riprendere l’iniziativa nelle organizzazioni di base e nelle periferie, tra la gente, i lavoratori e le famiglie in stato di indigenza. Situazione sempre più diffusa, anche a causa della precarietà dilagante e della pandemia pessimamente affrontata dal governo centrale. Per quanto riguarda i lavoratori occupati, l’obiettivo è quello di ricostruire un sistema di diritti, dopo che l’ossatura della vecchia legislazione trabalhista è stata distrutta con l’azione congiunta della deindustrializzazione e delle controriforme in materia di lavoro, dei diritti sindacali e previdenziali, attuate a partire dal 2016, dai governi di Temer e di Bolsonaro.
Nonostante tutte queste difficoltà, in campo sindacale, si registrano alcuni segnali di ripresa: da alcuni di mesi si è costituito un Forum delle Centrali Sindacali che ha, come obiettivo quello di realizzare una Conferença Nacional da Classe Trabalhadora (CONCLAT) con la partecipazione di tutte le Centrali Sindacali Brasiliani (attualmente sono sei), per costruire una piattaforma unitaria.
È, questo, uno dei processi “necessari” per rimettere al centro, anche del dibattito elettorale, la condizione di milioni di lavoratori dipendenti nonché di quei nuovi soggetti, gli “autodipendenti”, che il lessico e l’ideologia correnti, definiscono “imprenditori di sé stessi”. Si tratta di un’importante iniziativa che ridarebbe fiato, fiducia e speranza ai lavoratori e, soprattutto, ai quadri sindacali.
Oggettivamente più difficile si presenta, il lavoro tra le fasce emarginate delle periferie e delle favelas, dove la presenza del narcotraffico e delle milizie armate, punta ad appropriarsi del territorio. Sono fazioni che contrappongono violenza a violenza, per “gestire servizi” e “offrire protezione”, a pagamento, ovviamente). Questa situazione rende sostanzialmente impossibile ogni azione di organizzazione popolare, della formazione e della cultura di resistenza e lotta comune. È, invece, un terreno che lascia proliferare la presenza delle chiese evangeliche, una presenza che ha soppiantato l’importante lavoro svolto, in passato, dalle comunità cristiane di base, ispirate, per lo più, alla Teologia della Liberazione.
C’è quindi un immenso lavoro da fare per dare risposte ai bisogni di cambiamento che emergono costantemente da un corpo sociale offeso e martoriato. Un’esigenza di cambiamento sempre sentito e che, nel 2018, aveva perfino orientato verso Bolsonaro una parte della popolazione più povera. Oggi, molte di quelle illusioni, si sono trasformate in delusioni: l’aumento del costo della vita e la precarietà strutturale, l’indigenza e la violenza quotidiana indicano la necessità di chiudere con l’esperienza Bolsonaro.
Nonostante i cambiamenti epocali e l’invasione della vita privata da parte delle reti sociali, la candidatura di Lula e la concreta possibilità del suo ritorno alla Presidenza del Brasile, è il motivo generatore di una grande speranza collettiva. È una speranza ed è l’annuncio di un’importante prospettiva politica ed economica del Brasile per sé, per il suo futuro democratico, ma anche con evidente certezza, per il Sudamerica e per gli equilibri mondiali.
* Ex dirigente Cisl, consulente Inas Brasile