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Più Europa, vuol dire meno sovranità nazionale

Dall’inizio della crisi economica e finanziaria, il processo d’integrazione europea ha subito un’accelerazione che ha prodotto una serie di cambiamenti nel modo in cui Bruxelles monitora e guida le tappe della convergenza. 

Per la prima volta negli Stati membri si è iniziato a parlare apertamente del progressivo abbandono della sovranità nazionale, un’espressione raramente pronunciata in passato, ad esempio, durante il processo di creazione della moneta unica. Rinunciare a “pezzi” di sovranità nazionale, bisogna precisare, fa parte del cammino comune che i paesi membri dell’Unione Europea hanno deciso di intraprendere decadi fa’, una verità ripetutamente enunciata nei trattati e di cui è intrisa la visione politica  dei padri fondatori. 

La mancanza di un piano di convergenza chiaro e ben organizzato da parte delle istituzioni europee ed i dubbi sulla struttura futura dell’Unione Europea, una volta raggiunta l’integrazione ottimale, ha fatto sì che nel tempo perdurasse una sorta di tabù dell’abbandono della sovranità nazionale. Poiché gli europei non hanno un’idea chiara di come convergere, ne’ di quanto convergere, hanno potuto ignorare i problemi relativi al trasferimento della sovranità nazionale fino a dimenticarne l’esistenza.

In realtà, la rinuncia alla sovranità nazionale è un problema comune nella  creazione di stati federali o sovranazionali, ovvero nati da altri organi sovrani che scelgono di rinunciarvi, è questo il caso degli Stati Uniti d’America ma anche dell’Australia, nazioni governate da governi federali. E’ anche vero che il risultato finale del processo di convergenza dipende sempre da fattori imprevedibili e spesso richiede, come nel caso degli Stati Uniti, con la scelta della lingua inglese quale unico idioma nazionale, decisioni poco popolari per alcuni segmenti della popolazione.

Negli ultimi anni ci siamo resi conto che l’accelerazione nel processo di convergenza ha prodotto un diffuso discontento in Europa. Alla radice c’è l’abbattimento del tabù della sovranità nazionale: ormai è chiaro a tutti che se vogliamo procedere lungo la strada dell’integrazione dobbiamo delegare a Bruxelles sezioni sempre più grandi di questa stessa. 

C’e’ poi un  altro fenomeno che alimenta l’ostilità dei popoli europei nei confronti di Bruxelles: la scarsa conoscenza dei meccanismi di convergenza, del loro funzionamento e degli obiettivi che si prefissano, in altre parole le modalità dell’integrazione. E’ su questo punto, in particolare, che il dibattito politico verterà nei prossimi mesi. In questa sede si analizzeranno due di questi processi: il progetto per un Fondo europeo comune (European Redemption Fund) ed il Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (Transatlantic Trade and Investment Partnership).

 

Il Fondo Europeo Comune

La creazione del Fondo europeo comune è frutto del processo di accelerazione della convergenza per far fronte alla profonda crisi finanziaria ed economica in cui dalla fine della prima decade degli anni 2000 si trova il Vecchio Continente. 

I trattati di Maastricht (1992) e di Lisbona (2009) fissavano il tetto dell’indebitamento massimo risetto al PIL al 3% e quello del debito pubblico non oltre il 60% del PIL. 

La serietà della crisi del credito e le divergenze finanziarie tra i paesi della periferia, i cosiddetti PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna), e nazioni come la Germania, la Finlandia  o la Svezia ha convinto Bruxelles ad introdurre nuovi limiti per evitare che le divergenze aumentassero. E’ nato così il Trattato di Stabilità, meglio noto come Fiscal compact, secondo il quale gli stati membri si impegnano a rispettare il vincolo di pareggio di bilancio annuale, un accordo che rende impossibile l’ulteriore indebitamento, ed offre una metodologia precisa per far rientrare in un ventennio il debito pubblico nei limiti del 60%. 

Per ora, soltanto l’Italia ha introdotto nella costituzione, con l’articolo 81, questa nuova regolamentazione.

Applicare le nuove regole sarà, però, molto costoso, specialmente per i paesi maggiormente indebitati come il nostro. Si calcola, infatti, che il Fiscal compact equivarrà a circa 40 miliardi di euro, soldi che sarà molto difficile reperire nel clima di recessione e deflazione in cui si trova non solo il nostro paese ma gran parte dell’Europa. 

Per far fronte a questi ostacoli contingenti, Bruxelles ha incaricato un gruppo di 11 economisti europei di studiare una possibile soluzione di medio periodo. Costoro hanno aderito alla proposta avanzata nel 2012 dal German Council of Economic Experts nella quale si suggerisce la creazione di un Fondo di redenzione europeo (European Redemption Fund).

Il fondo raccoglierà tutte le eccedenze debitorie degli stati membri  superiori al 60% del PIL contro una garanzia di beni patrimoniali nazionali, come le riserve valutarie e quelle auree, i beni del demanio e parte del gettito fiscale (IVA). In cambio, il fondo trasformerà il debito nazionale in debito europeo emettendo titoli obbligazionari europei ad un tasso inferiore a quello dei paesi membri poiché il fondo avrà un rating di AAA superiore a quello dei singoli stati membri. E’ chiaro che il procedimento implica la rinuncia ad alcune fette di sovranità nazionale da parte degli stati membri e l’impossibilita’ di tornare indietro; una volta trasformato il debito nazione in debito europeo non si potrà ‘rinazionalizzarlo’.

Le critiche mosse si riferiscono a questo punto ed alla garanzia dei beni nazionali, e cioè alla cessione di questi ad un ente sovranazionale europeo. Senza voler entrare nel merito di queste dispute, è bene ricordare che l’Italia, come tutti gli stati membri, ha accettato il principio di redistribuzione sovranazionale di alcune risorse nazionali, ad esempio con la costituzione dei fondi strutturali europei. Il processo di convergenza non può essere a senso unico e non può non significare la perdita di sovranità nazionale.

 

Il Partenariato Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti

Gli accordi stipulati tra Unione Europea e Stati Uniti per quanto riguarda la creazione di un asse Atlantico a carattere economico, commerciale e finanziario rientra nel processo di cessione della sovranità nazionale dei paesi membri ad un ente sovranazionale, l’Unione Europea. I firmatari, infatti, non sono gli Stati membri ma l’Unione.

Obiettivo del trattato è rimuovere le barriere non tariffarie e questo spiega perché i negoziati commerciali si stanno concentrando sulla rimozione di alcune regolamentazioni sociali e ambientali che proteggono i consumatori, i lavoratori e l’ambiente, e che, a detta di molti, sono d’intralcio ai profitti delle grandi imprese. Per esempio, le aziende statunitensi vorrebbero vedere l’Europa abbassare i suoi standard sul lavoro e porre fine al “principio di precauzione” – il cardine delle politiche di tutela dei consumatori e dell’ambiente su cui è basato il  Regolamento REACH sulle sostanze chimiche e le sue severe norme sulla sicurezza alimentare e sulle etichette degli alimenti. Le aziende europee, invece, puntano contro le più severe norme americane sui medicinali, i dispositivi medici e i test, così come contro il loro più stretto regime di regolamentazione finanziaria.

Molte critiche sono state mosse nei confronti di questo trattato, anche e soprattutto da enti legati all’Unione Europea. 

Vedi http://corporateeurope.org/trade/2013/10/brave-new-transatlantic-partnership-social-environmental-consequences-proposed-eu-us

Il pericolo è la corsa verso il minimo comun denominatore, l’abolizione di regole e regolamentazioni che proteggono l’economia e la società in generale.

Non è questa la sede per entrare nel merito di queste critiche, è però importante capire che la cessione di sovranità implica l’accettazione di politiche, strategie e trattati da parte di enti ed organi europei sovranazionali diversi da quelli nazionali. Ciò significa anche la creazione di nuove istituzioni, come il Fondo di redenzione europeo, che si sostituiscono ad enti nazionali. In ultima analisi questo processo in tempo di pace deve poggiare sulla fiducia reciproca tra cittadini, Stati e Unione Europea, un rapporto che deve essere creato attraverso l’informazione e la conoscenza dei processi in corso.

L’Europa del futuro per funzionare ha bisogno di questo tipo di rapporto, senza il quale l’Unione continuerà a perdere il supporto dei popoli che ne fanno parte.

 (*) Economista; autrice di numerosi libri e pubblicazioni

 

 

 

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