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Evitate di farvi del male e di farlo al Paese

Era nell’aria ed adesso è sul tappeto. Il conflitto tra politica e sindacato è deflagrato e l’occasione è stata il Congresso della CGIL. Renzi non è andato, pur essendo stato invitato. Camusso l’ha vissuto come un vulnus, segnale di una pericolosa “torsione democratica”. Bonanni vede dietro il gesto d’inimicizia, soltanto un conflitto interno al PD. Angeletti rincara la dose usando una frase del Direttore del New York Times nei confronti di Kennedy, ma che più spesso è ripetuta, talvolta con linguaggio più ruvido, dagli alti burocrati dello Stato verso i ministri e sottosegretari che si susseguono nei vari Governi che transitano durante la loro carriera. E le repliche e le controrepliche continuano, alimentando più confusione che chiarezza.

La polemica non deve impressionare più di tanto. Basta che non sfoci in una reciproca delegittimazione. Non serve a nessuno che interlocutori importanti giochino ad indebolirsi, piuttosto che a valorizzarsi. Né la fase politica, né gli interessi delle persone potrebbero trarre vantaggi dall’innalzamento di muri di incomprensioni reciproche e dallo scambio di battute sempre più velenose. Non si tratta di invocare il “volemose bene”, né di dare lezioni di bon ton a chicchessia. Si tratta soltanto di richiamare l’esigenza di badare alla concretezza delle questioni in ballo, piuttosto che alle specifiche identità. La concertazione, tanto evocata in questo periodo, non è soltanto un rito che, se non si rinnova, diventa lesa maestà. 

La concertazione, quando funzionò (e lo fu per un breve ma intenso momento), esaltò la capacità di una classe dirigente del Paese che, in presenza del dilagante fenomeno di Tangentopoli, della pesante svalutazione della lira e della crisi occupazionale, tra il 1992 e l’anno successivo mise in moto una serie di riforme, compresa quella del salario e delle relazioni sindacali. Con essa, il Paese uscì dall’angolo in cui si era cacciato e lo preparò all’entrata nell’euro. La concertazione è e rimane una modalità fertile di dialogo soltanto se è carica di contenuti da negoziare e condividere. Finora, non è stato così e non solo per responsabilità dei Governi; infatti, le tanto sventolate convergenze tra le parti sociali, con tanto di documenti comuni, si sono frantumate nell’impatto con le proposte del Governo Renzi.

 Ma ci risiamo. Il Paese ha bisogno di migliorare la propria produttività complessiva, pena un irreversibile degrado. Il Governo ne ha fatto la propria cifra. Forse definendo non brillantemente le priorità, forse facendo dell’irruenza una bandiera inusuale. Ma ha posto una questione cruciale e di difficile contestabilità. Per di più, lo ha fatto caricando la molla più sulle inefficienze esterne alla produzione (istituzioni più snelle ed efficaci, pubblica amministrazione meglio organizzata, trasparenza nella gestione) che sulla solita ricetta della spremitura del lavoro per assicurare competitività al sistema delle imprese. Anche le definitive soluzioni sul contratto a tempo determinato e sull’apprendistato non sono ascrivibili alla cattiva flessibilità, indipendentemente dallo scambio proposto con gli 80 euro di sgravio fiscale a chi lavora e guadagna poco.

Il sindacato confederale  esca dal difensivismo. Non ragioni solo politicamente (“potere contro potere” fu slogan degli anni 70 dello scorso secolo). Non si faccia irretire da accuse strumentali di neolaburismo (sua  presunta etero direzione di almeno una parte del partito guidato dal Presidente del Consiglio). Non si rinchiuda nel fortino corporativo, aspettando che passi il cadavere dell’antagonista. Faccia il suo mestiere, coniugandolo con i tempi attuali.

Da una parte c’è la necessità di stare in Europa con un’ autonomia propositiva molto coesa e dall’altra occorre dare risposte alle voci che reclamano, in modi sempre più  perentori e rabbiosi, di ricomporre il mercato del lavoro. Ce ne è abbastanza per definire una strategia complessiva che convinca i propri iscritti e l’opinione pubblica. Una strategia che si collochi oltre il puro rivendicazionismo, oltre lo sterile opinionismo e sappia tenere insieme contrattazione e confronto istituzionale. 

Il pendolo, finora è stato troppo esposto sul versante legislativo, risultato al dunque fragile e discutibile. Ci vuole una correzione più energica e innovativa verso la contrattazione, rivendicando ad essa il ruolo di primogenitura della ricomposizione del mondo del lavoro, in cambio di un sostegno senza riserve della crescita della produttività complessiva. Quindi, da una parte occorre accettare la sfida di ridurre le sacche di rendita politiche, burocratiche, professionali e finanziarie esistenti fuori dal sistema produttivo e dall’altra puntare  a rappresentare tanto i “ben occupati”, quanto “i male occupati” e i senza lavoro, ma anche i più deboli sul piano sociale (pensionati poveri, famiglie numerose, immigrati da integrare). Fare cioè il sindacalismo degli interessi generali, come si diceva una volta.

La prospettiva, quindi, non è affatto funeraria, ma semmai piena di potenzialità costruttive. Certo, occorre determinazione e voglia di rischiare nell’individuazione degli obiettivi unificanti i padri e i figli e correggendo con coraggio anche situazioni che ieri nacquero come diritti ed oggi si sono trasformate in privilegi (penso alle pensioni d’oro, alle impennate che hanno avuto le retribuzioni alte, private e pubbliche, alle rigidità mansionarie, specie nell’area pubblica). 

Il mondo non evolve per contrapposizione. Evolve per integrazione, coesione, dialogo. Specie nelle circostanze in cui sono prevalenti i rapporti relazionali. Ma questa evoluzione cammina sulle gambe della buona volontà ma anche della convergenza su questioni concrete e che diventano condivise. Per il successo, quindi, non sarà mai sufficiente un puro abbassamento dei toni. Occorrerà una proposta complessiva del sindacato e se è possibile, sostenuta da una rinverdita unità (non di facciata) tra le centrali confederali.

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