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Un urlo momentaneamente muto

Nelle recenti elezioni europee, la percentuale più alta di astensionismo dal voto si è registrata nel Mezzogiorno. Con punte assai consistenti in alcune Regioni, come la Sicilia. Ribellismo, menefreghismo o qualcos’altro? Risposte facili a questioni decisamente complesse è meglio non darle. Si rischia la banalità. Per questo conviene capire come la società meridionale reagisce alla grande crisi economica, sociale e morale del Paese. E ciò non per sociologismo spicciolo o sfizio intellettuale, ma perché  è  come chiedersi se la coesione di questo Paese è a rischio o no. Certo, forse con tutti i guai che dobbiamo affrontare quotidianamente, mettere nel conto che vi possa essere una sorta di scollamento tra gli interessi e le aspettative di parti importanti del Paese può risultare scomodo, ma non ascoltare i campanelli d’allarme sarebbe da incoscienti.

Per i dati a disposizione (qui usiamo quelli Istat e Svimez) siamo al codice rosso per la salute del Mezzogiorno. Il Pil nazionale nel 2013 è caduto dell’1,8%; quello del Mezzogiorno del 2,5%. Tuttora siamo in recessione, ma nel Sud è più grave. Infatti, mentre a scala nazionale gli investimenti nel 2013 sono calati del 6,7%, nelle Regioni meridionali sono diminuiti dell’11,5% . La decrescita è marcata dall’andamento dell’occupazione. Tra il 2008 e il 2012 – 4,6% al Sud mentre il Centro Nord registra un -1,2%. In termini assoluti, questi i dati: dei 506 mila persone che hanno perso il lavoro in Italia, 301 mila sono meridionali, i quali rappresentando soltanto il 27% degli occupati totali, pesano sulle perdite occupazionali per il 60%. E’ noto a tutti che i giovani sono quelli che pagano più di tutti; per loro non c’è che l’emigrazione. Dal 2001 al 2012 il saldo netto emigratorio dal Sud al Centro Nord è stato di 647 mila unità e di questa perdita, il 70% (453mila) ha riguardato i giovani, di cui un terzo laureati (162 mila). Così il Sud invecchia più del Nord: in dieci anni (2001 – 2011) la popolazione meridionale è cresciuta di 104 mila unità a fronte di oltre 2,3 milioni nel resto d’Italia. Più vecchi, ma anche più poveri. Nel 2012 la povertà assoluta ha interessato 935 mila famiglie del  Centro Nord su 17,7 milioni (5,4%) , mentre nel Mezzogiorno sono state 790 mila su un totale di 8,2 milioni (9,8%). A questi dati vanno aggiunti quelli meno noti, relativi all’evasione dell’obbligo scolastico, alla clamorosa carenza di asili nido, alle strutturali debolezze del sistema dei servizi sociali. Un grande divario economico, un drammatico divario occupazionale, un intollerabile divario di cittadinanza.

Quindi un Mezzogiorno stremato, declinante e senza l’ambizione di riproporsi come questione nazionale? Un Mezzogiorno che tira a campare e fatalisticamente attende che passi la nottata? L’assistenzialismo fa la sua parte, indubbiamente. Basti un esempio. Il Sud ha il 30% dei pensionati (di ogni tipo) italiani, ma uno su due di quelli per invalidità civile; questa vale 16 miliardi di euro annui, di cui 13 miliardi di assegno di accompagnamento. Poi c’è l’ammortizzatore emigrazione, che come si è detto, sottrae anno dopo anno una enorme quantità di giovani dalla sacca della ribellione. E infine, c’è l’ampia gamma dell’economia sommersa, che sconfina nelle attività illegali e mafiose,  che trascina lavoro nero e spesso criminale; essi  consentono ad una parte della società meridionale di sopravvivere.

Ma né il Mezzogiorno è soltanto questo, né l’arrangiarsi può essere la spiegazione della scarsità di voce del popolo meridionale. Il Mezzogiorno è anche presenza di filiere produttive posizionate per competere sui mercati internazionali, di distretti culturali intrecciati con le attività manifatturiere e del terziario, di diffuse esperienze di impegno sociale, anche attraverso le organizzazioni del volontariato, di centri di ricerca con forti agganci internazionali competitivi in campi d’avanguardia. Non sono il nerbo portante dell’economia del Sud, ma sono l’avamposto della ricostruzione di un tessuto produttivo e sociale che va valorizzato con modalità decisamente diverse da quelle del passato. A questo tipo di nuova economia non servono né incentivi a fondo perduto, né decontribuzioni a tempo. Servono, invece, una nuova qualità delle infrastrutture materiali ed immateriali per migliorare la produttività del territorio e sani tutoraggi per innovare le organizzazioni della produzione di beni e servizi. In tutti i settori, come dimostra la vitalità che stanno avendo l’agricoltura e il turismo. E a questo Sud serve anche una classe dirigente che non cerchi la sua legittimazione solo nella denunzia del divario e nella ricerca di soluzioni che arrivino da “altrove”; ma che, ben sapendo che è necessario un aiuto esterno, sa anche che esso ha senso e produce effetti solo se “incrocia” percorsi, soggetti, spinte locali allo sviluppo. Che susciti e premi le responsabilità dei meridionali, piuttosto che continuare a declinare le responsabilità altrui.

In altri termini, l’economia della sopravvivenza può essere soppiantata dall’economia dell’innovazione se si riempie il vuoto di governance strategica. Le Regioni hanno dimostrato di non esserne capaci. Restituiscono soldi a Bruxelles. E quelli che spendono, se sottoposti a criteri di costi/benefici, molto spesso farebbero una cattiva figura. Sarebbe necessaria la creazione di tante “Fondazioni con il Sud”, a carattere privatistico, capaci di orientare e sviluppare iniziative che nascono dal territorio e che devono essere sostenute nel loro progresso verso l’ampliamento dei mercati. 

La prevalente abulia del Mezzogiorno, però, va ricercata anche nella sua sfiducia verso le istituzioni e la politica. Da esse, i meridionali non si aspettano granchè, tanto cocenti sono state le delusioni accumulate negli anni. Forse, un tempo aspettava che calasse dall’alto qualcosa; forse hanno creduto veramente che ci fosse un demiurgo che pensasse a risolvergli i loro problemi. Ora, il Mezzogiorno né propone, né esegue. Si scompone in tanti Mezzogiorni, articola le sue problematiche senza definire un filo conduttore, tenta di costruire una prospettiva a prescindere dalla solidarietà nazionale. Siamo quasi ritornati a don Sturzo che, nel 1926, recensendo il libro di Guido Dorso “La rivoluzione meridionale”, lamentava: “Il Mezzogiorno non ha potuto mai conquistare un vero controllo sui pubblici poteri, né esprimere una prevalenza politica, nei confronti con l’Alta Italia” (in La battaglia meridionalista, Laterza, 1979). E’ come se ora la gente ne fosse più consapevole. E non va a votare.

Tutto ciò non può rassicurare né le istituzioni, né la politica. Il silenzio sfiduciato del Mezzogiorno non è acquiescenza, non è neppure indifferenza. E’ un urlo momentaneamente muto che va comunque ascoltato se non si vuole correre il rischio che si formi un’elite laboriosa ma rancorosa che, prima o poi, chiederà il conto. E a quel punto sarà salato, per chi non ha anticipato le risposte.

 

 (*) Presidente della Fondazione CON IL SUD

 

 

 

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