Uno degli argomenti più stucchevoli che in questi giorni ritorna sulla Delega Lavoro riguarda la realizzazione della cosiddetta flexsecurity, che dovrebbe essere la vera novità di questo ennesimo intervento della legge nel campo del lavoro. C’è chi mette l’accento più sulla flex e chi più sulla security, ma tutti si dichiarano a suo favore. Come spesso succede, è proprio l’accentuazione che svilisce la discussione, tradendo più nostalgie passate che convergenze per il futuro.
Un ventennio di invenzioni legislative, volte soltanto a far costare di meno il lavoro e a caricare sul singolo lavoratore i rischi di un’economia declinante ed incerta non basta a convincere gli iperliberisti a fare mea culpa. Siccome la realtà è cocente, aderiscono alla flexsecurity come se fosse la ciambella di salvataggio della loro dottrina disastrosa. La firma di questo trasformismo è nella presenza nella Delega Lavoro della previsione che in tutti i settori produttivi e di servizi è possibile utilizzare i vouchers per i cosiddetti lavori accessori. La festa per i furbetti è sempre in corso.
Invece di smascherare questo gattopardismo, quanti priorizzano la security hanno scelto di pigiare l’acceleratore sulla “estensione dei diritti preesistenti”. Dicono il vero quando sottolineano che l’eliminazione dell’articolo 18 non serve a creare lavoro (nei paesi dell’Africa ci dovrebbe essere la piena occupazione), ma non convincono quando non fanno riferimento al lavoro attuale e futuro, ma prevalentemente a quello del passato. Quando fu introdotto l’articolo 18, l’organizzazione del lavoro fordista non aveva rivali e la mobilità da azienda ad azienda era una scelta individuale del lavoratore indotta soprattutto dalla concorrenza tra le imprese, quasi tutte in crescita; tanto per la cronaca, erano tempi in cui non aveva cittadinanza neanche la mobilità da una linea di montaggio ad un’altra. Ma non per maniacalità o radicalità sindacali ovvero per pavidità o lassismo aziendali, ma perché la produzione era programmabile a medio termine, i modelli dei prodotti longevi e si era in fase di consistente sviluppo.
Invece ora e più ancora in prospettiva, vivremo sempre più di lavori che cambiano e lavoratori che, nell’arco della propria vita, ne faranno più di uno. Per questo si sta affermando la flexsecurity, come insieme di strumentazioni oltre che di diritti che fa da cuscinetto protettivo per chi, in modo collettivo o individuale, deve passare da un’attività ad un’altra. In Italia, si è pensato meno alle strumentazioni, specie quelle cosidette “attive”, perché si è affidato ai diritti le tutele più delicate e all’assistenza passiva, le crisi congiunturali e strutturali. Ma il tempo, le carte le scopre sempre. E il più usurato dei diritti è proprio quello del reintegro, nei casi di licenziamento individuale. E’ deviante affermare che essi sono pochi e quindi irrilevanti. Sarebbero decisamente di più se ci fosse una giustizia del lavoro che in poco tempo risolvesse le vertenze. La maggior parte delle vicende si risolvono – com’è noto – con la monetizzazione, perché sia l’azienda che il lavoratore non se ne stanno con le mani in mano in attesa che un giudice metta termine alla lite. Ma questa soluzione empirica non è flexsecurity; è soltanto svuotamento di un diritto, purtroppo.
Al lavoratore del terzo millennio serve qualcosa di più e qualcosa di nuovo. Di più c’è che, se non può mettere nel conto che inizierà e finirà il suo lavoro nello stesso luogo e posto, sia ben definito il contratto che regolerà la sua prestazione per tutto il tempo che la svolgerà. Soltanto il contratto a tempo indeterminato, sia pure a tutele crescenti, può assolvere a questo scopo. La Delega Lavoro accoglie questo principio già definito dalla Legge Fornero, ma come quella, non ne solidifica la centralità. Non credo che ci siano né i tempi e né le condizioni per farlo in sede parlamentare. L’appuntamento della definizione dei decreti applicativi può rappresentare, invece, per i sindacati l’occasione per mettere alla prova il Governo e far sgombrare il campo dalla concorrenzialità di forme di lavoro non standard e per dare, così, una svolta alla dualità del mercato del lavoro italiano.
La novità che serve al lavoratore del terzo millennio è un sistema di tutele che non lo fa più sentire solo nel duro momento della transizione da un lavoro verso un altro. Sono anni che ci raccontiamo che la Cassa integrazione non è la soluzione, che bisogna rendere strutturali politiche attive che ruotino attorno alla formazione culturale e professionale, che occorre una personalizzazione delle tutele sociali riguardanti sia il lavoratore che la sua famiglia, che soltanto con la cooperazione tra pubblico e privato è possibile ottimizzare le azioni. La flexsecurity è l’insieme di questi diritti, strumentazioni e modalità di governance. Ma si è fatto ben poco, prevalentemente in aree a bassa disoccupazione e spesso limitandosi a definire (da parte del pubblico) cataloghi di attività formativa e raccogliendo curricula (da parte dei soggetti privati autorizzati a intermediare il mercato del lavoro). In Germania, la persona che cerca lavoro sa chi è il suo tutor (pubblico o privato), dialoga con lui, si orienta, si attiva e viene anche controllato per evitare devianze.
E’ questo gap che va recuperato in gran fretta, riempendo i vuoti che la Delega Lavoro ambiguamente ha lasciato al secondo tempo dei decreti applicativi. E’ in questo terreno di nessuno che si gioca la partita di diritti nuovi e universali, di strumentazioni realmente arricchite di contenuti che creano speranza, di governances non burocratiche ma adatte a tenere assieme le fila della conoscenza e della gestione sul territorio e poi a scala nazionale delle politiche attive più efficaci. Per il passaggio concreto dalle enunciazioni ai fatti, non solo ci sarà bisogno di discutere di tante risorse, senza le quali non si va da nessuna parte, ma occorrerà che tutti i soggetti interessati, a partire dai sindacati, siano coinvolti e responsabilizzati per la migliore riuscita dell’affermazione della flexsecurity anche nel nostro Paese.