Ci interroghiamo continuamente su come stiano mutando, in quest’epoca di profondo cambiamento, le competenze richieste a leader e manager, professional e tecnici. Ci chiediamo se e come sia possibile aggiornare il set di competenze che fanno la differenza, quelle su cui organizzazioni e imprese hanno performato, quelle su cui soprattutto potranno continuare a costruire il loro successo. E’ un dibattito che va ben oltre l’angusto territorio delle organizzazioni e dell’economia, investe in profondità la società, anche noi stessi.
Quando c’interroghiamo proviamo molte fragilità, le scopriamo talvolta come nuove, quasi ci risvegliassimo dal torpore creato da inconsapevolezza e orgogliosa testardaggine; trovano spesso nutrimento nel disagio dello stare insieme, del condividere con gli altri spazi sociali e organizzativi. Anche per questo, ci sentiamo un po’ tutti precari, in bilico sulle onde sollevate dalle numerose discontinuità culturali, tecnologiche e scientifiche che viviamo. Con affanno, così, ricerchiamo strumenti per non cadere, qualche appiglio cui aggrappare l’inquietudine di fondo che ci è compagna. Uno scritto di Salvatore Natoli (L’educazione alla felicità, Aliberti Editore, 2012) descrive efficacemente la sua più profonda radice: “Nella storia del mondo i legami di comunità si sono sempre più rotti perché le istanze della soggettività sono cresciute e, con esse, sono cresciute le libertà; ma un fatto è la promozione delle libertà senza la distruzione della comunità, un altro la promozione delle libertà con la distruzione della comunità”.
Insomma, all’origine c’è sempre la dialettica tra unicità e molteplicità che lungo la storia, anche quella delle imprese, percorre strade conosciute, a volte persino scontate, altre invece più impervie in cui si procede tentoni. Come scavare in questa inadeguatezza personale e organizzativa? Come sostenere la ricerca affannosa di uno stare bene e del sentirsi al posto giusto? Quali saperi occorrono, quale formazione è utile alle persone e organizzazioni contemporanee? Anche qui ritroviamo quel dialogo, talvolta “scontro”, altre volte “incontro”, tra la prospettiva personale e quella organizzativa. Viene riproposta dalla filosofia di fondo dell’impresa e dei suoi decisori, dalle politiche, programmi e investimenti sul lavoro.
Prendendo a prestito le illuminanti riflessioni proposte da Gian Piero Quaglino (La scuola della vita, Raffaello Cortina Editore, 2011) possiamo dire che la formazione e i suoi interventi traggono origine per lo più da circostanze esterne, come possono essere le finalità di migliorare competenze e capacità, ovvero la necessità di innovare pratiche e modi di agire. Possono scaturire però anche da bisogni interiori, con l’obiettivo questa volta di diventare uno “spazio riservato ed esclusivo, appartato e privilegiato” in cui dare forma al sé. Non sono più sufficienti le prime due tipologie di formazione per aiutare persone e organizzazioni (se mai lo sono state) a interpretare il “mestiere di vivere” anche negli affari. Non basta da sola quella che si propone come “luogo dell’esposizione del sapere” fatta d’insegnamento, didattica, aule ed esercitazioni; né può colmare il senso di inadeguatezza la seconda formazione che Quaglino chiama “luogo della elaborazione della conoscenza”, quella meno conosciuta e che rinuncia ad insegnare per sperimentare l’apprendimento che si costruisce.
Siamo convinti che per mettere mano al set di competenze utili in questa contemporaneità dai confini mobili e sfuggenti occorre una terza formazione che partadai nostri bisogni, dalla unicità e irripetibilità di ciascuno. Le architetture di apprendimento – abbiamo documentato in un recente scritto a più voci (Amicucci F., Gabrielli G., a cura di, Boundaryless learning, FrancoAngeli, 2013) – diventano porose, come richiede il riconoscimento della diversità; complesse, per valorizzare le innovazioni della scienza e della tecnologia; inclusive, per ospitare e sollecitare l’espressione del sé di ciascun individuo. Diventano anche senza confini, per testimoniare che la formazione è un cammino in cui s’incontrano persone: con qualcuna ti fermi a parlare, altre le saluti pigramente da lontano, qualcuna cerchi di evitarla prendendo un viottolo scosceso e nascosto, altre ancora se le incontri e non sei distratto ti cambiano la vita e il percorso che avevi in mente.
La formazione che ci serve è un luogo composito di voci che non si sovrastano, non urlano, non prevaricano. Un luogo innanzi tutto che consente a ciascuno di tirar fuori la propria voce. John Keating, il professore de L’attimo fuggente interpretato da Robin Williams, sollecitava così i suoi allievi: “Figlioli dovete combattere per trovare la vostra voce, più tardi cominciate a farlo, più grosso è il rischio di non trovarla affatto”. Le imprese e i suoi leader possono fare molto in questa direzione. Possono riappropriarsi dell’idea che anche le organizzazioni – almeno nella prospettiva che condividiamo – sono luoghi di educazione e benessere ancor prima di strumenti e combinazioni di risorse per realizzare profitti. Le imprese sarebbero molto più sensate.
(*) Gabriele Gabrielli, Università LUISS Guido Carli, Presidente Fondazione Lavoroperlapersona