Marco, il tuo libro “Un atomo di verità” edito da Feltrinelli è suggestivo, ricordi personali e la drammatica storia di quei giorni si incrociano. Ad un certo punto scrivi: “i ricordi dei bambini sono emotivi, non si muovono restano fissati lì, incastrati nella memoria. ” Ci offri appunto un libro in cui consegni al lettore una memoria viva di quella ferita indelebile nella storia Italiana. Via Fani sanguina ancora per la nostra democrazia, e forse non smetterà mai di sanguinare. E’ così?
Ti ringrazio per aver sottolineato quella frase perché è stato il punto di partenza della mia scrittura. Non è un saggio storico, come altri miei libri, e neppure un romanzo, ho provato a fare un viaggio nella memoria che è anche un viaggio fisico, mi sposto in diversi punti d’Italia e non solo, utilizzando la parola io perché tutto comincia da una scena: sono un bambino
e passo con il mio pulmino delle scuole elementari da via Mario Fani venti minuti prima della strage del 16 marzo 1978. Quel giorno, ho scritto, sono diventato grande. Ho provato a rivivere l’emozione e lo sconvolgimento di quel giorno di guerra e i quarant’anni successivi, con la chiave del racconto. Credo così di aver dato voce agli italiani normali che non dimenticano quel giorno, quel momento. E anche, al tempo stesso, provare a uscire dalla
rimozione collettiva di quel periodo: i ragazzi di oggi non sanno niente degli anni di piombo, del terrorismo, delle vittime inermi come Moro o come – fammelo citare perché anche per lui è un anniversario, Roberto Ruffilli – e certo non è colpa loro. Noi siamo diventanti grandi come persone, ma la democrazia non è diventata più adulta, come immaginava Moro: al contrario,
ha camminato all’indietro.
Il tuo itinerario si sviluppa, lungo tutto libro, da via Fani a Torrita Tiberina, si conclude, infatti, nel piccolo cimitero di quel paesino sulla Tomba di Aldo Moro. Sembra un cammino per capire il nostro presente. Che cosa ha perso l’Italia con la morte di Aldo Moro?
Si, hai ragione, il viaggio comincia da via Mario Fani e si ferma di fronte a quella piccola tomba di Torrita Tiberina. Si è perso con Moro l’idea della politica come intelligenza degli avvenimenti e capacità di persuasione, la democrazia che è una tensione e non una conquista una volta per tutte. Dopo di lui, la politica è stata sempre di più affidata esclusivamente ai rapporti di
forza. Fammi dire: non voglio fare un santino, Moro è stato un uomo di potere, ha conosciuto il potere in tutti i suoi aspetti, anche il più crudo e il più oscuro. Nessuno come lui sapeva cosa si muove nel fondale occulto della politica e della società italiana. Ma proprio per questo immaginava la costruzione di percorsi complessi, di tempi lunghi, di non esaurire un progetto
politico nello spazio di un istante. Anche la sua ultima operazione, l’ingresso del Pci nella maggioranza di governo, aveva un respiro strategico e avrebbe significato il superamento di Yalta con dieci anni di anticipo. La sua morte ha spezzato l’ultima possibilità della Repubblica dei partiti, come l’ha chiamata Pietro Scoppola, di auto-rinnovarsi. Dopo sono arrivati Mani Pulite, Tangentopoli, la fine di Dc, Pci, Psi, la fallimentare seconda Repubblica e l’impossibilità della politica di guidare i processi e dare risposte che spiega anche l’oggi. L’anniversario di Moro cade nel dopo 4 marzo, con gli elettori in rivolta e il buio pesto sulle prossime settimane. È un caso, “un’enigmatica correlazione”, avrebbe detto Sciascia.
Riecheggiano spesso nel libro le parole di Moro sull’Italia: “Un paese dalla passionalità intensa e dalla struttura fragile”. Dopo la morte di Moro è finita la prima repubblica, dopo di lui è stato, come hai ricordato tu, il trionfo della visione corta della politica. E quelli che si autodefiniscono “eredi” oggi sono relegati all’opposizione. … Eppure la voce di Moro ci parla ancora: “io ci sarò come un punto irriducibile di contestazione e alternativa”… Parole terribili alla DC, ma valide anche per l’oggi…
C’è una frase in un articolo giovanile di Moro che voglio citare: «il nostro posto è all’opposizione, il nostro compito è al di là della politica. Noi non abbiamo aspirazioni a governare. Non vogliamo il potere, perché esso ci fa paura. Potrebbe rendere anche noi conservatori, conservatori, non fosse altro, di una libertà meschina e personale. Potrebbe abituarci al compromesso, potrebbe insegnarci la finzione. E noi vogliamo essere liberi, liberi di tutta la libertà dello spirito…». Aveva ventotto anni, ma è significativo che le stesse cose le ha scritte prima di essere rapito, nell’ultimo articolo scritto per il “Giorno”, in cui rivendicava un ruolo per i grandi cambiamenti degli anni Sessanta, «il risveglio delle coscienze, il fiorire di atteggiamenti autonomi, la contestazione di espressioni del potere e di cristallizzazioni politiche, la riscoperta della società civile, la valorizzazione dei giovani e del loro diritto di cambiare. Questa specie di rivoluzione ebbe da noi una vibrazione singolare e certi non è passato senza lasciare tracce durevoli. Ed anzi non è passato, ma resta come un modo di essere vitale della nostra società». Era un uomo di governo e di potere, ma sosteneva che i partiti dovevano essere in grado di fare «opposizione a se stessi», non esaurirsi soltanto nell’esercizio del governo. Mi colpisce che lui usasse così spesso la parola cristallizzazione. Ora abbiamo una politica che si percepisce in movimento, vuole dare questa sensazione, e invece è immobile e paralizzata.
Un altro punto che tocchi è quello dell’indagini alla ricerca della verità, con il lavoro dell’ultima Commissione di Inchiesta siamo arrivati a buoni risultati. Perché definisci la verità su Via Fani “parziale e ambigua”?
Moro va strappato alla riduzione di questi quarant’anni, va liberato dal “caso Moro” in cui è stato sequestrato per la seconda volta. Per questo mi soffermo poco sui misteri dei 55 giorni. Faccio solo notare che alcune conclusioni della commissione parlamentare presieduta da Giuseppe Fioroni sono importanti. E che, una volta di più, le presunte rivelazioni delle Br dei decenni scorsi appaiono una colossale montagna di omissioni e di manipolazioni. Per questo, e per principio, non ho voluto sentire nel mio lavoro neppure uno degli ex terroristi: non sopporto il loro narcisismo, le loro lamentazioni, le loro bugie. Non metto in dubbio che siano stati i brigatisti a rapire Moro e che la vicenda sia tutta italiana, interna alla nostra storia e alla storia della sinistra estremista che odiava il presidente della Dc e lo considerava il simbolo del regime democristiano. Ma c’era l’altra parte, la destra profonda, che voleva eliminarlo perché rappresentava l’impossibilità per la Dc di tradire la democrazia e di allearsi con la destra. Nel sequestro queste forze interne e internazionali hanno trovato un’occasione insperata. Questo si può dire, anche se certo in modo parziale.
“Datemi da una parte milioni di voti toglietemi dall’altra parte un atomo di verità, ed io sarò comunque perdente”. E’ la frase di Moro che chiude il tuo libro … Ed è quello che manca oggi alla politica. E’ così?
Verità, in politica, è una parola perfino pericolosa. In nome della verità si sono compiuti i crimini orrendi dei totalitarismi novecenteschi. Tuttavia la politica non può prescindere da un rapporto con la verità: su se stessa e sul Paese cui si rivolge. La frase di Moro mi sembra straordinariamente attuale in questa settimana post-elettorale: puoi prendere milioni di voti e poi perdere lo stesso perché non hai verità, cioè una visione, un progetto. Questo vale per gli sconfitti del 4 marzo e ancora di più per i vincitori.